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I Maestri del Socialismo

Formazione e informazione politica, storica e filosofica per un canale gestito da Alessandro Pascale.

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Pubblichiamo il video dell'intervento di Alessandro Pascale in rappresentanza di Resistenza Popolare al termine della manifestazione di Roma di ieri, in conclusione di una grande manifestazione che ha raccolto oltre 10 mila persone contro il governo Meloni. In due minuti di rabbia Popolare abbiamo ribadito che il modo migliore per contestare la guerra è lottare per l'uscita dell'Italia dalla NATO e dall'UE.
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DAL PROGRAMMA ALL’ORGANIZZAZIONE (2° parte) In generale si pone la necessità di organizzare un “programma” di rivendicazioni minime ed immediate, come spiegano Nikolaj Bucharin e Yevgeni Preobrazenskij: «ogni partito persegue determinati obiettivi, sia esso un partito di latifondisti o capitalisti che di operai o contadini. Ogni partito deve avere i suoi obiettivi, altrimenti esso perde il carattere di partito. Se è un partito che rappresenta gli interessi dei latifondisti, esso perseguirà gli obiettivi dei latifondisti: in quale modo si possa mantenere il possesso della terra, tener soggetti i contadini, vendere il grano a prezzi più alti, ottenere prezzi d’affitto superiori, e procurarsi operai agricoli a buon mercato. Un partito di capitalisti, di industriali, avrà ugualmente i suoi propri obiettivi: ottenere mano d’opera a buon mercato, tenere in freno gli operai industriali, cercare nuove clientele alle quali si possa vendere le merci ad alti prezzi, realizzare alti guadagni e a tal fine aumentare le ore di lavoro, e soprattutto creare una situazione che tolga agli operai ogni velleità di aspirare ad un ordinamento sociale nuovo: gli operai debbono vivere nella convinzione che padroni ve ne sono sempre stati e ve ne saranno anche nell’avvenire. Questi gli obiettivi degli industriali. S’intende che gli operai e contadini hanno obiettivi ben diversi, essendo ben diversi i loro interessi. Un vecchio proverbio russo dice: “Ciò che è salutare per il russo, è mortale per il tedesco”. Sarebbe più appropriata la seguente variante: “Ciò che è salutare per l’operaio, è mortale per il latifondista e per il capitalista”. Ciò significa che il lavoratore ha uno scopo, il capitalista un altro, il latifondista un altro. Ma non tutti i proprietari si occupano con assiduità ed accortezza dei loro interessi, e più di uno vive nell’ozio e nei bagordi non curandosi nemmeno di ciò che gli presenta l’amministratore. Ma vi sono anche molti operai e contadini che vivono in questa noncuranza ed apatia. Essi ti dicono: “In un modo o nell’altro si camperà la vita, che m’importa il resto? Così hanno vissuto i nostri antenati e così vivremo anche noi”. Questa gente s’infischia di tutto e non comprende nemmeno i suoi propri interessi. Coloro invece che pensano al modo migliore di far valere i propri interessi si organizzano in un partito. Al partito non appartiene quindi l’intera classe, ma soltanto la sua parte migliore, la parte più energica, ed essa guida tutto il rimanente. Al partito dei lavoratori (il partito dei comunisti bolscevichi) aderiscono i migliori operai e contadini. Al partito dei latifondisti e capitalisti […] aderiscono i più energici latifondisti e capitalisti ed i loro servitori: avvocati, professori, ufficiali, generali, ecc. Ogni partito abbraccia quindi la parte più cosciente di quella classe i cui interessi esso rappresenta. Perciò un latifondista o capitalista organizzato in un partito combatterà i suoi contadini od operai con maggiore efficacia di uno non organizzato. Nello stesso modo un operaio organizzato lotterà contro il capitalista o latifondista con maggiore successo di uno non organizzato; e ciò perché egli si è reso conscio degli interessi e delle finalità della classe operaia, e conosce i metodi più efficaci e più rapidi per conseguirli. L’insieme degli obiettivi, cui un partito aspira nella difesa degli interessi della propria classe, forma il programma di questo partito. Nel programma sono formulate le aspirazioni di una data classe. Il programma del partito comunista contiene quindi le aspirazioni degli operai e dei contadini poveri. Il programma è la cosa più importante per ogni partito. Dal programma si può sempre giudicare di chi un dato partito rappresenti gli interessi». L’esigenza di un partito rivoluzionario dotato di una precisa ideologia e chiaro nei suoi obiettivi è imprescindibile, come verrà ribadito da tutti i grandi comunisti del ‘900, da Lenin a Gramsci, da Stalin a Mao, passando per Fidel Castro, “Che” Guevara, ecc.
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Alcuni obiettivi saranno necessariamente transitori e contingenti, quindi tattici, e costantemente subordinati all’obiettivo di fase fondamentale per il partito all’opposizione del regime: la presa del potere politico. Così la Piattaforma originaria dell’Internazionale Comunista: «La conquista del potere politico da parte del proletariato comporta l’annientamento del potere politico della borghesia. L’apparato statale, con l’esercito capitalistico messo sotto il comando di un corpo di ufficiali borghesi o nobili, con la polizia e i carabinieri, le carceri e i giudici, i preti, i funzionari, ecc. costituisce nelle mani della borghesia il più importante strumento di governo. La conquista del potere statale non può ridursi a un mutamento della formazione dei ministeri ma deve significare: l’annientamento di un apparato statale estraneo, la presa di possesso delle leve effettive, il disarmo della borghesia, del corpo di ufficiali controrivoluzionari, delle guardie bianche, l’armamento del proletariato, dei soldati rivoluzionari e della guardia rossa operaia; la destituzione di tutti i giudici borghesi e l’organizzazione di tribunali proletari, la distruzione della burocrazia reazionaria e la creazione di nuovi organi proletari di amministrazione. La vittoria proletaria si assicura con la disorganizzazione del potere nemico e l’organizzazione del potere proletario; deve significare la demolizione dell’apparato statale borghese e la creazione dell’apparato statale proletario. Solo dopo la completa vittoria, quando avrà spezzato la resistenza della borghesia, il proletariato potrà obbligare i suoi antichi avversari a servirlo utilmente, riducendoli progressivamente sotto il suo controllo, nell’opera di costruzione del comunismo». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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Santoro, l'ultimo eminente rappresentante della sinistra della NATO.
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MUHAMMAD ALI, CAMPIONE NELLO SPORT COME NELLA VITA «Non ho visto un singolo mendicante per le strade della Russia sovietica. Non mi sono mai sentito così sicuro, non vi è nessun rischio di essere derubati. Mi è stato detto che in Unione Sovietica non c’è libertà di religione, ma in realtà i musulmani, i cristiani e gli ebrei praticano liberamente il loro culto. Credo che il rapporto tra i nostri popoli sia negativo solo a causa della falsa propaganda». (Muhammad Alì) A 8 anni dalla morte, un ricordo di Muhammad Alì, nato Cassius Marcellus Clay Jr. (Louisville, 17 gennaio 1942 – Phoenix, 3 giugno 2016): il pugile statunitense è tra i maggiori e più apprezzati sportivi della storia, sia per le sue gesta sportive, sia per la sua statura etico-umana, manifestatasi nella polemica contro il razzismo statunitense. In quegli anni è spesso a fianco di Malcolm X, di cui condivide le istanze del black power, seppur declinato in un’ottica religiosa. Vince l’oro Olimpico ai Giochi di Roma nel 1960 e come pugile professionista detiene il titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un’ultima breve parentesi ancora nel 1978. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiuti di onorare la patria colpevole della follia del Vietnam. Il 29 aprile 1967 Muhammad Ali-Cassius Clay viene infatti privato del titolo di campione del mondo di pugilato a causa del suo rifiuto di prestare il servizio militare per dichiarata contrarietà alla guerra in Vietnam, così giustificata: «la mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, non hanno mai stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera». Non una frase ad effetto, ma un grido della coscienza, una coraggiosa scelta etica che gli costa il ritiro della licenza e il ritiro obbligato dalle scene sportive per diversi anni, quelli in cui è al top del vigore fisico. Luca Baldelli commenta così: «Con eroica abnegazione, piena coscienza del suo ruolo e delle sue intime convinzioni, nonché dei doveri conseguenti, Alì pagò il prezzo di questo coraggio con la carcerazione e la cancellazione dei titoli guadagnati sul ring. Il potere yankee mostrò, in tal modo, al di là degli slogan sulla “democrazia“, i “ diritti “ e la “libertà“, il suo vero volto reazionario e repressivo verso ogni voce in dissenso con le false verità dell’establishment. Alì non si dette per vinto e continuò a gridare al mondo che il Re, che in molti vedevano vestito di tutto punto, era più nudo che mai. Uscito di prigione, il campione puntò tutto al riscatto della sua persona, metafora della lotta di tutta la gente di colore d’America ma anche di tutti gli sfruttati, gli emarginati, di tutti i popoli in lotta contro l’imperialismo. Ferrea, netta, fu, ad esempio, la sua solidarietà con la Rivoluzione cubana, artefice della creazione del “primo territorio libero d’America”». Nel 1996 e nel 1998, nel corso di due viaggi a La Habana, dona 1,2 milioni di dollari per acquistare attrezzature mediche e altro materiale necessario al consolidamento e alla difesa della sanità cubana, punta di diamante riconosciuta in tutto il mondo per il suo livello. Parole sincere di ammirazione sono spese da Muhammad Alì anche nei riguardi dell’URSS, da lui visitata nel 1978, con tanto di incontro “al vertice” con Leonid Brežnev, Segretario del PCUS. Muhammad Ali è diventato un simbolo del ‘900, per il mondo e soprattutto per i milioni di africani figli di un’oppressione coloniale secolare, che lo hanno accolto come un eroe nel titanico incontro di Kinshasa nello Zaire (1974) contro il più blasonato e prediletto (dai bianchi) George Foreman.
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Sempre su questo tema leggiamo Baldelli: «L’incontro più emozionante e ricco di valenza simbolica, fu però quello della grande rivincita di Alì: il match con il Campione del Mondo Foreman in Zaire, il 30 ottobre del 1974. Il luogo scelto per l’incontro non fu certo casuale: dal Congo (questo il nome storico del paese) erano stati condotti in schiavitù negli Stati Uniti milioni e milioni di neri, tanto che una famosa piazza di New Orleans era denominata “Congo Square”. A guidare il paese, allora, era Mobutu Sese Seko, il quale investì sull’incontro tutto il suo prestigio e le sue aspettative di “riabilitazione“ agli occhi di una parte del mondo che lo identificava, e a ragione, come il protagonista principale del complotto contro il grande Lumumba, figura integerrima e leggendaria di combattente antimperialista. Quell’incontro era, per Alì, la “madre di tutte le battaglie” del riscatto: Foreman, emblema del nero “integrato”, coccolato e osannato dal potere bianco, ad onta della sua proverbiale scontrosità, era un avversario non solo fisico, ma anche ideologico, per un Alì che aveva fatto invece dello scontro col sistema, della lotta contro l’imperialismo, i soprusi e le ingiustizie, la sua ragione di vita. Prima di salire sul ring, in quell’occasione, Muhammad Alì pronuncerà ancora una volta parole cariche di significato, che possono essere definite una sorta di manifesto politico e sentimentale: “Io non combatto per il mio prestigio, ma per migliorare la vita dei miei fratelli più poveri che vivono per strada in America, i neri che vivono di sussidi, che non hanno da mangiare, che non hanno coscienza di se stessi, che non hanno futuro. Voglio vincere il titolo per andare tra i rifiuti con gli alcolizzati. Voglio stare in mezzo ai drogati, alle prostitute. Voglio aiutare la gente”. Contro ogni pronostico sapientemente pompato dalla stampa del regime, Alì vinse sul Campione Foreman, fino a quel momento protagonista di trionfi su calibri quali Frazier, destinato poi a battere Alì in un discusso incontro. L’Africa tutta esplose di gioia e voglia di riscatto, quel 30 ottobre del 1974, e con l’Africa tutto il mondo schiacciato, ma indomito, sotto il tallone dell’imperialismo: con Alì avevano vinto gli sfruttati, gli ultimi, i paria, il sale della Terra». Ricordiamo altri suoi discorsi che testimoniano una personalità unica: «Muhammad significa degno di lode, e Ali significa altissimo. Clay significa creta, polvere. Quando ho riflettuto su questo, ho capito tutto. Ci insegnano ad amare il bianco [white] ed odiare il nero [black]. Il colore nero significa essere tagliato fuori, ostracizzato. Il nero era male. Pensiamo a blackmail [ricatto]. Hanno fatto l’angel cake [pane degli angeli] bianco e il devil’s food cake [torta del diavolo] color cioccolato. Il brutto anatroccolo è nero. E poi c’è la magia nera... Quel che voglio dire è che nero è bello. Nel commercio il nero è meglio del rosso. Pensate al succo di mora: più nera è la mora, più dolce il succo. La terra grassa, fertile, è nera. Il nero non è male. I più grandi giocatori di baseball sono neri. I più grandi giocatori di football americano sono neri. I più grandi pugili sono neri». «Perché dovrebbero chiedermi di indossare un’uniforme e andare 10.000 miglia lontano da casa a far cadere bombe e proiettili sulla gente marrone del Vietnam, mentre i cosiddetti negri, a Louisville, sono trattati come cani e gli sono negati i semplici diritti umani? No, non andrò 10.000 miglia lontano da casa a dare una mano a uccidere e distruggere un’altra nazione povera, semplicemente perché continui il dominio degli schiavisti bianchi sulla gente scura di tutto il mondo. Questo è il giorno in cui diavoli di tal fatta devono sparire. Sono stato avvertito: prendere questa posizione mi potrebbe costare milioni di dollari. Ma l’ho detto una volta e lo ripeterò: il vero nemico del mio popolo è qui. Non andrò contro la mia religione, contro il mio popolo o me stesso diventando uno strumento per schiavizzare chi sta lottando per avere giustizia, libertà ed eguaglianza.
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Se pensassi che la guerra porterà libertà ed eguaglianza a ventidue milioni di miei simili non avrebbero dovuto arruolarmi: lo avrei fatto io, domani. Non perdo nulla restando fermo sulle mie posizioni. Andrò in prigione: e allora? Siamo stati in catene per quattrocento anni». «Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre». «Dentro un ring o fuori, non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra». «Chi non è abbastanza coraggioso da assumersi le proprie responsabilità non compirà niente nella vita». «L’uomo che non ha fantasia non ha ali per volare». «I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere l’abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte dell’abilità». [Fonte: https://www.storiauniversale.it/310-muhammad-ali-campione-nello-sport-come-nella-vita.htm. Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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DAL PROGRAMMA ALL’ORGANIZZAZIONE La rivoluzione del proletariato non può abolire in un tratto la proprietà privata, ma può trasformare progressivamente la società finché non si sia creata la quantità necessaria dei mezzi di produzione. La rivoluzione vuole fondare un nuovo patto sociale all’insegna di una costituzione democratica e popolare che garantisca l’esistenza dignitosa del proletariato e serva a preparare il percorso per il socialismo. Marx ed Engels stendono un programma rivoluzionario di riforme radicali del capitalismo, ammettendo la limitatezza di questi “principi”, ben consci di come siano storicamente determinati e non riapplicabili magicamente in ogni circostanza storica. Ne consegue anche un programma minimo in 10 punti per i «paesi più progrediti» che traccia la via da seguire e mantiene una certa attualità: «1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e l’impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato. 2. Imposta fortemente progressiva. [chi ha di più paghi di più; ndr] 3. Abolizione del diritto di eredità. [un aspetto completamente cancellato dal nostro paradigma teorico; ndr] 4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli. 5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo d’una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo. [in tempi in cui la sovranità monetaria è in mano alla BCE rimane validissimo... ndr] 6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato. [pensiamo alla privatizzazione e all’esternalizzazione dei servizi pubblici che va avanti da anni; ndr] 7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune. [notare che non si pone subito la rivendicazione della nazionalizzazione di tutte le attività, ma di incrementare la quantità di fabbriche nazionali, sottoposte cioè al controllo dello Stato operaio; ndr] 8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura. [il tema del lavorare tutti, lavorare meno... ndr] 9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e di quello dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna. [potremmo aggiungere in senso ampio anche la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale... ndr] 10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell’educazione e della produzione materiale, ecc.». [uno dei punti oggi che più è stato accolto, anche se continuano ad esserci spese non indifferenti per le famiglie degli studenti, ndr] [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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LA NECESSITÀ DELLA RIVOLUZIONE «La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo di quelle antiche». (Karl Marx & F. Engels) Una volta comprese le forze in campo e perché l’affermazione di una società socialista sia necessaria, nonché l’unica via, per sconfiggere il capitalismo, occorre capire come riuscire ad organizzare il proletariato in questa lotta. Il primo assioma, uno dei punti centrali che divide i comunisti dai socialdemocratici, è che il capitalismo non è superabile meramente attraverso l’azione riformistica, ma necessita di uno strappo rivoluzionario. Per Marx ed Engels un’ottica rivoluzionaria è un presupposto scontato: indifferentemente dal contesto sanno bene che la rivoluzione può perseguire i suoi fini solo col rovesciamento radicale di tutto l’ordinamento sociale esistente: «lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato» . E ancora, più espliciti: «tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società». Nessuna illusione sulla possibilità di superare il capitalismo per via pacifica. Rispondendo alla domanda «sarà possibile l’abolizione della proprietà per via pacifica?» Engels è lapidario: «Sarebbe desiderabile che ciò potesse avvenire, e i comunisti sarebbero certo gli ultimi a opporvisi. I comunisti sanno troppo bene che tutte le cospirazioni sono non soltanto inutili, ma addirittura dannose. Sanno troppo bene che le rivoluzioni non si fanno deliberatamente e a capriccio, ma che sono state, sempre e dovunque, la conseguenza necessaria di circostanze assolutamente indipendenti dalla volontà e dalla direzione di singoli partiti e di classi intere. Ma vedono anche che lo sviluppo del proletariato viene represso con la violenza in quasi tutti i paesi civili, e che in questo modo gli avversari dei comunisti lavorano a tutta forza per provocare una rivoluzione. Se in questo modo il proletariato oppresso finirà per essere sospinto a una rivoluzione, noi comunisti difenderemo la causa dei proletari con l’azione, come adesso la sosteniamo con la parola». Oggi queste parole possono sembrare esagerate, in tempi di democrazia liberale, ma su questo aspetto abbiamo già avuto modo di esprimerci nel volume dedicato al Totalitarismo “liberale” per quel che riguarda la società occidentale, e mostreremo la violenza per noi “invisibile” portata avanti sistematicamente nel resto del mondo in cui la conflittualità sociale è assai più elevata e radicale rispetto alla nostra attuale situazione. La necessità della rivoluzione socialista rimane un assioma ineludibile, testimoniato anche dal fallimento storico della socialdemocrazia a livello mondiale. I numeri fin qui presentati sono infatti la migliore dimostrazione dell’incapacità strutturale di costruire un capitalismo “dal volto umano”, etico, ecc. I riformisti, nella sostanza idealisti o materialisti metafisici, sono stati aspramente criticati e combattuti già ai loro tempi da Marx ed Engels. Avremo modo di vedere le loro argomentazioni. Ora capiamo come organizzare una rivoluzione. [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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L’IMPERIALISMO, FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO (2° parte) Nel Piccolo dizionario filosofico si sottolinea che «l’imperialismo conduce ad un’accentuazione senza precedenti di tutte le contraddizioni del capitalismo: contraddizioni economiche e politiche, contraddizioni di classe e contraddizioni nazionali. Le più importanti sono quelle: 1° tra Lavoro e Capitale; 2° tra i vari gruppi finanziari e tra gli stati imperialisti, in lotta per la spartizione del mondo; 3° tra le metropoli e le immense popolazioni delle colonie e dei paesi dipendenti». Il tema è particolarmente rilevante, andando a ricollegarsi non solo alla “questione sociale”, ma anche alla “questione nazionale”, come già spiegato in precedenza, e come emerge in maniera netta da uno studio attento della storia delle lotte di emancipazione coloniale, assai spesso sottovalutate dall’intellighenzia progressista. Anche gli stessi paesi imperialisti sono interessati dal fenomeno, in quanto uno Stato può essere imperialista verso alcuni popoli, ma allo stesso tempo essere ridotto ad una condizione di semi-colonia a sovranità limitata da parte di una potenza imperialista più potente. È questo il caso dell’Italia, subalterna dal 1945 agli USA e dal 1992 all’Unione Europea, che ne hanno ridotto notevolmente la sovranità, offrendo come contropartita alla borghesia italiana una fetta della torta nella spartizione dei benefici ottenuti nel contesto della controffensiva imperialista avvenuta con l’avvento della “globalizzazione neoliberista” a guida occidentale. Il salto qualitativo fatto dalla “moderna” globalizzazione ha significato la rottura delle politiche keynesiane e socialdemocratiche di compromesso tra capitale e Lavoro, caratteristiche dell’epoca del «Trentennio Glorioso» (1945-75) ed è diventata la modalità prevalente con cui il capitale ha risposto a partire dagli anni ‘70 alla caduta tendenziale del saggio di profitto causata da diversi fattori, non ultimi dei quali il completamento della decolonizzazione, sostenuta dal blocco socialista, che ha rischiato di sottrarre alla penetrazione delle borghesie occidentali fette importanti delle materie prime e del mercato mondiale. È insomma il ritorno in grande stile dell’imperialismo su scala mondiale, che si presenta oggi con il volto delle multinazionali e delle speculazioni finanziarie. [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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SIAMO D’ACCORDO CHE CINA E RUSSIA NON SONO PAESI IMPERIALISTI Ottima riuscita dell’assemblea pubblica sul tema “Cina e Russia: paesi imperialisti?”, organizzata a Milano presso la sala 1° maggio il 27 maggio 2024. Dopo l’introduzione di Alessandro Pascale (Resistenza Popolare), ha portato un saluto il segretario milanese del Partito Comunista Italiano Massimo Cimbali, poi il giornalista Evgeny Utkin ha approfondito il discorso sulla Russia. È intervenuto Vladimiro Merlin per il Movimento per la Rinascita Comunista e a seguito le tre relazioni tenute da Alessio Gasperini (Miracolo a Milano), Mattia Cavatori (Partito dei CARC) e Marco Mainardi (Patria Socialista). Ne è seguito un maturo dibattito politico che ha accresciuto la coscienza dei partecipanti. L’iniziativa ha evidenziato una ricchezza e convergenza oggettiva di analisi, seppur con sfumature differenti, sull’analisi attuale e sulla constatazione che Russia e Cina non possano essere considerati Paesi imperialisti, nemmeno facendo (segue...)👇👇
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(...continua) riferimento alle categorie leniniste. Questa è la nostra risposta a chi, portando avanti la dottrina degli “opposti imperialismi”, fa oggettivamente il gioco della propaganda di Washington e Bruxelles. L’incontro è stato registrato e ne verrà diffuso nei prossimi giorni il video, a cui seguirà la pubblicazione degli atti scritti. Seguiteci su Resistenzapopolare.org e su tutti i nostri canali.
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Lenin poi delinea i principali contrassegni dell’imperialismo: in primo luogo la concentrazione della produzione e del capitale, poi la formazione di un’oligarchia finanziaria sulla base del capitale finanziario, l’importanza avuta dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci, la nascita di associazioni monopolistiche internazionali, e infine la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. “L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è incominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici” […]. Rispetto all’antico imperialismo, quello moderno è basato su due fondamentali novità: la concorrenza dei diversi imperialismi e la prevalenza del finanziere sul commerciante. L’imperialismo rappresenta quindi storicamente una “scelta obbligata” compiuta dalla borghesia dei paesi capitalistici più sviluppati, in quanto unica alternativa possibile per superare le difficoltà economiche intrinseche al capitalismo liberistico, senza tuttavia rinunciare al sistema di organizzazione sociale fondato sul profitto capitalistico. Conseguentemente l’imperialismo rappresenta l’ultima forma possibile di organizzazione economica capitalistica e inoltre determina le condizioni internazionali (lotte di liberazione dei popoli coloniali) per la definitiva soppressione dell’imperialismo stesso. In questo senso l’imperialismo è “la fase suprema del capitalismo”». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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L’IMPERIALISMO, FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO Secondo il Dizionario dei termini marxisti, l’imperialismo è «un fenomeno che investe l’economia, le caratteristiche politiche, sociali, culturali e istituzionali delle società borghesi a capitalismo avanzato, allorquando lo sviluppo del modo di produzione capitalistico o le esigenze di accrescimento del capitale non potrebbero essere soddisfatte nel quadro di un’economia limitata nei confini nazionali. L’aumento della concorrenza determina infatti la necessità, per mantenere alto o per aumentare il profitto, di investire maggiore capitale in macchinari e tecnologia. Le imprese capitalistiche sono pertanto spinte a cercare all’estero mercati ancora liberi dalla concorrenza […]. Questa fase si distingue dal precedente sviluppo di tipo “liberistico” perché i paesi capitalisti, invece di importare materie prime e di esportare merci, tendono a investire capitali nei paesi industrialmente meno avanzati o sottosviluppati, influenzando così il loro stesso sviluppo economico, sociale e politico. In questo tipo di colonialismo sorge ben presto una concorrenza tra gli stessi paesi imperialisti anche nella spartizione delle “zone di influenza”. Secondo la concezione marxista-leninista l’imperialismo è dovuto all’evoluzione delle caratteristiche fondamentali del capitalismo, come estremo tentativo di assicurare sbocchi commerciali alla produzione sovrabbondante sul mercato interno. Mentre i teorici della seconda internazionale (Kautsky, Bernstein) separavano la politica imperialista dallo sviluppo in senso monopolistico del capitalismo, Lenin vide invece la necessità per il capitalismo della politica colonialista per il mantenimento del profitto. Egli individua cioè nell’imperialismo una fase storica necessaria del capitalismo. Per Lenin inoltre i caratteri dell’imperialismo sono quelli del capitalismo sulla via del tramonto (“putrefazione” e “parassitismo” del capitalismo) necessari per il mutamento dei rapporti di produzione. Sotto l’aspetto politico, l’imperialismo si configura come tendenza alla reazione e al fascismo dal punto di vista della politica interna e, per quella estera, all’aggressione e alla guerra ad altri popoli meno progrediti. Lenin mette in rilievo la differenza tra l’imperialismo del periodo monopolistico rispetto a quelli precedenti: “Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi, prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l’imperialismo. Ma le considerazioni ‘generali’ sull’imperialismo che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità” […]. Anche la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia sostanzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario: la caratteristica fondamentale del moderno capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Il periodo dell’imperialismo, secondo il marxismo, è stato preceduto ed è la conseguenza di una serie di crisi economiche internazionali, di cui la più grave ha avuto inizio negli ultimi decenni del secolo scorso, a cui la borghesia ha cercato di sfuggire attraverso la soppressione della libera concorrenza e con quella che è nota come la formazione del capitale finanziario (compenetrazione del capitale bancario con quello industriale). A questo proposito Lenin delinea la formazione e lo sviluppo dell’imperialismo in tre momenti: un primo periodo dal 1860 al 1870 durante il quale si verifica l’apogeo della libera concorrenza e i monopoli sono soltanto in embrione; un secondo periodo dopo la crisi del 1873 in cui si ampliò lo sviluppo dei cartelli o trust, e infine l’ascesa degli affari alla fine del sec. XIX e il periodo della crisi degli anni 1900-1903 durante i quali i cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica.
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Se i lavoratori non riprenderanno al più presto in mano le armi dello sciopero e della lotta di classe, non sarà mai possibile nessun progresso sociale. Tutti i diritti sociali di cui noi oggi godiamo sono stati il frutto di durissime lotte sociali che i lavoratori italiani hanno portato avanti nel XX secolo e che spesso hanno pagato con la vita. È ora che rinasca un grande movimento di massa che rimetta con forza le tematiche del lavoro al centro dell’orizzonte politico nazionale. Resistenza Popolare, Costituente Comunista, Movimento per la Rinascita Comunista e Patria Socialista sabato 1 giungo scenderanno in piazza a Roma per ribaltare questo stato di cose. Vogliamo liberare l’Italia dalle catene dell’imperialismo americano, dai diktat dell’Ue e dal Governo Meloni che, come Arlecchino, è servo di due padroni. Siamo perfettamente consapevoli che “l’imperialismo è la fase suprema del capitalismo” e che, pertanto, per sbarazzarci del primo è necessario distruggere il secondo. Con la partecipazione a questa manifestazione vogliamo dare il nostro contributo alla costruzione di ampio fronte popolare che mandi a casa il Governo dei padroni!
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CONTRO IL GOVERNO MELONI CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA FUORI L'ITALIA DA NATO E UE IL 1° GIUGNO TUTTI A ROMA Resistenza Popolare, Costituente Comunista, Movimento per la Rinascita Comunista e Patria Socialista sabato 1 giungo sfileranno uniti nella grande manifestazione nazionale contro il governo Meloni che si terrà a Roma. Si tratta di un evento importate perché rappresenta la volontà comune di superare le divisioni che hanno portato alla trentennale diaspora dei comunisti e di intraprendere un percorso politico che porti all’unità di tutti i marxisti-leninisti italiani. La costruzione di un unico forte Partito marxista-leninista, innovativo e all'altezza dei tempi, è la sola arma vincente che possa essere usata contro il governo ultra-liberista e neofascista di Giorgia Meloni. Negli ultimi trent’anni in Italia le politiche neoliberiste, applicate sia dalla destra che dal centro sinistra, hanno annientato lo stato sociale e hanno collocato sempre più il nostro Paese sotto la “tutela” dell’UE e degli USA. La nostra è da lungo tempo una democrazia dimezzata! La Meloni, però, ha avuto il “merito” di rendere ancora più drammatica questa situazione! Sul piano internazionale, per quanto riguarda il conflitto isra3lo-pal3stinese, l’Italia è passata dalla cosiddetta “equivicinanza” andreottiana ad una posizione completamente asservita nei confronti di Washington e del suo sostegno al genocidio del popolo p4lestinese. Né Giorgia Meloni né il ministro degli Esteri Tajani hanno mai compiuto alcuna azione diplomatica seria contro il governo s1onista di Netanyahu: l’astensione dell’Italia all’Onu sul riconoscimento dello Stato di Pal3stina è il sintomo evidente di come il nostro Paese non abbia alcuna sovranità in politica estera e si faccia dettare la linea dall’altra sponda dell’Atlantico! Il Governo Meloni non va a rimorchio degli Usa solo per quanto riguarda il genocidio in atto a G4za, ma anche per quanto riguarda la nuova corsa agli armamenti che è in atto in Occidente. Infatti l’Italia, in spregio dell’Art. 11 della Costituzione, è tra i maggiori sostenitori dell’aumento delle spese militari, in conformità con l’obiettivo del 2% del Pil che la Nato ci vorrebbe imporre. È chiara la volontà di dirottare miliardi di euro dalla spesa sociale a quella militare! Più soldi per la guerra significa meno fondi alla Sanità, alla Scuola, al Lavoro, alla edilizia pubblica ed a tutti i servizi che dovrebbero migliorare il tenore di vita delle fasce popolari. Mentre l’inflazione è fuori controllo, gli stipendi sono al palo, il lavoro si fa sempre più povero e precario, la scuola è un lusso per pochi e la sanità arranca, le priorità del Governo sono cose che non riguardano affatto la vita quotidiana dei cittadini, come la separazione delle carriere dei magistrati ed il ponte sullo Stretto di Messina o cercando di distruggere ancora di più la costituzione e la vita di milioni di persone con Premierato e Autonomia differenziata. In Italia c’è una spaventosa emergenza lavoro. Tantissimi lavoratori sono poveri, sopravvivono con stipendi da fame e non arrivano alla fine del mese. Ma la Meloni è riuscita persino a dire che “gli stipendi devono crescere poco” per contenere l’inflazione. Evidentemente per lei non è un problema se milioni di lavoratori sono malpagati e sfruttati. Questo è più che mai il Governo dei padroni! É il neofascismo che assolve al compito storico di fare gli interessi della grande borghesia industriale ora multinazionale! Ogni giorno l’Esecutivo attacca il diritto di sciopero con l’aumento della repressione e rivela sempre più la propria natura autoritaria. Qui non si tratta soltanto di difendere il diritto al dissenso (come dice certa finta opposizione di “sinistra”) ma di non perdere il diritto al conflitto sociale, poiché il solo motore del progresso è la lotta di classe!
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IN MEMORIA DEL COMPAGNO HONECKER "Non è esagerato dire che il capitalismo è invischiato in una trama di contraddizioni che reclamano una soluzione. Con la convinzione infantile che "il mercato s'incaricherà di regolare tutto", nessuno dei problemi dell'umanità sarà risolto. È per questo che, inevitabilmente, appariranno nuove forze capaci di conquistare e stabilire nuovi rapporti sociali. O l'umanità sarà trascinata nel baratro dal capitalismo, oppure lo sconfiggerà. È la seconda ipotesi la più verosimile, la più concreta, perché i popoli vogliono vivere. Malgrado tutte queste difficoltà e pericoli, malgrado la situazione molto cupa del momento, io sono e rimango fiducioso. Il futuro appartiene al socialismo". (Eric Honecker, 1994) Attivista comunista in gioventù, passa gli anni del nazismo in prigione, tornando libero soltanto alla fine della seconda guerra mondiale. Tra i fondatori del SED, Erich Honecker (Neunkirchen, 25 agosto 1912 – Santiago del Cile, 29 maggio 1994) nel 1971 è eletto segretario generale della SED, sostituendo Walter Ulbricht. Contrario al processo di riforme portato avanti da Mihail Gorbačev in URSS, si pone in autonomia da Mosca. Nell’ottobre 1989 Honecker si dimette da tutte le sue cariche. Dopo l’unificazione tra Repubblica Federale Tedesca e DDR si trasferisce a Mosca. Sottoposto a processo in Germania per abuso di potere, viene estradato dalla Federazione Russa nel 1991. Prosciolto dalle accuse per motivi di salute, sceglie l'esilio in Cile dove muore nel 1994. Segnaliamo ampi estratti dall'eccezionale e per molti versi profetico discorso di autodifesa che ha pronunciato davanti al Tribunale di Berlino. Un vero e proprio manifesto politico. Su https://www.storiauniversale.it/413-l-autodifesa-di-erich-honecker.htm. [Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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«voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell’attuale vostra società, la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizioni necessarie la mancanza di proprietà per l’enorme maggioranza della società». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo tratto da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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LA DISUGUAGLIANZA SOSTANZIALE (4° parte) In Italia c’è voluto un comico, molto intelligente e sottovalutato, come Natalino Balasso, per dare due dati chiari e semplici: «il rapporto, negli Stati Uniti, tra gli stipendi degli alti manager e quelli degli operai: - 1965: 24 a 1 - 1989: 71 a 1 - 2005: 262 a 1 - 2011: 325 a 1» Dati confermati anche da Gallino quando afferma che «oggi l’amministratore delegato di una grande impresa guadagna in complesso – fra stipendio, bonus, opzioni sulle azioni, ecc. – dalle 300 alle 400 volte il salario o lo stipendio medio. Trent’anni fa lo stesso rapporto era intorno a 40 a 1. Credo sia difficile dimostrare che chi guadagna 400 volte il salario medio generi un valore aggiunto pari o superiore a quello generato da 400 lavoratori». Un sito specializzato in finanza si è divertito a vedere quali e quanti altri lavoratori si potrebbero retribuire con il compenso di un amministratore delegato delle prime 500 aziende Usa. La scelta è tra 6 premi Nobel, 25 rettori di grandi università, 28 presidenti degli Stati Uniti, 178 paramedici, 213 agenti di polizia, 225 insegnanti, 252 vigili del fuoco, 753 salariati minimi. Questi dati non sono molto distanti da quelli italiani, seguendo lo stesso andamento dovuto in primo luogo all’espansione delle politiche capitalistiche neoliberiste. Nello specifico Luciano Gallino spiega come e perché ciò sia potuto accadere: «i redditi più alti e le maggiori ricchezze sono cresciuti soprattutto per tre motivi. Il primo sono gli astronomici compensi attribuiti sia agli alti dirigenti delle corporations, sia ai traders, coloro che effettuano materialmente le transazioni sul mercato dei titoli per conto dei grandi gruppi finanziari, in ordine al quale si stima che per l’80% abbia un contenuto speculativo. Hanno inoltre contribuito le rendite che derivano per intero dal possesso e dalla gestione di patrimoni finanziari. La curva dei ricavi puramente finanziari – cioè in sostanza i guadagni da capitale – segue fedelmente, anche se qualche punto al di sotto, la curva che mostra l’impennata dei redditi e della ricchezza del 10% più ricco della popolazione di diversi paesi. Da ultimo, vanno ricordati gli sgravi fiscali che negli ultimi decenni la maggior parte dei governi occidentali ha concesso ai redditi e ai patrimoni più elevati: riduzione delle aliquote marginali, forte riduzione o soppressione delle imposte di successione, riduzione o eliminazione dell’imposta patrimoniale. Per ovvi motivi di proporzionalità, le disuguaglianze aumentano anche quando i medesimi sgravi sono estesi alla parte meno benestante della popolazione. Una riduzione del 3% dell’imposizione fiscale media su un reddito di 20.000 euro aumenta di 600 euro il reddito dell’interessato. Però la stessa riduzione aumenta di 30.000 euro il reddito di chi guadagna 1 milione l’anno. La disuguaglianza di reddito tra i due risulterà quindi aumentata di 29.400 euro. Va aggiunto il peso crescente delle imposte indirette, tipo l’IVA, che sono tipicamente regressive. Un aumento dell’IVA non viene nemmeno avvertito dai redditi elevati; al contrario, rappresenta un salasso per la maggior parte dei redditi da lavoro dipendente. Un micidiale effetto redistributivo allargato è stato prodotto anche dai più volte richiamati tagli allo Stato sociale. Il punto da fissare resta questo: quali che siano i canali che la redistribuzione dal basso verso l’alto percorre, se in un’economia che quando va bene cresce di 1-2 punti di PIL l’anno vi sono classi sociali i cui redditi aumentano di 4 o 5 volte tanto, l’incremento non può derivare che da una espropriazione invisibile delle classi a reddito più basso». Solo alla luce di questi dati spaventosi, conseguenza immediata dell’economia capitalistica globalizzata, si può capire l’attualità della rivendicazione marxiana:
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La morale dell'oligarca, del proprietario terriero, del politico di turno o del potente uomo d'affari. È la morale del ladro dal colletto bianco e dalle mani insanguinate. È la morale di chi non ha mai avuto principi, valori, o quella che chiamano umanità verso gli altri che non hanno il loro status. È la morale della classe dominante che uccide, che si nutre di morti e che grazie a questo rimane nella posizione privilegiata, di chi ammassa una grande fortuna sulle spalle di un popolo sfruttato, insultato, deriso e ipnotizzato che non sa che è a grazie al suo lavoro che i ricchi sono ricchi. Il potere ha la morale del carnefice consumato. Crea e mantiene dei grandi gruppi criminali, come quelli legati al paramilitarismo e al narcotraffico, per avere garantita la sua proprietà privata e l'espropriazione del popolo colombiano. È la morale del sistema capitalista. La morale del rivoluzionario, del combattente, del militante, è una morale costantemente nutrita da principi come la dignità, la solidarietà e la speranza, ed è ispirata dalla convinzione, dalla abnegazione e dalla lotta. È la morale di chi non pensa prima a se stesso, ma sempre agli interessi collettivi della classe, motivo del suo arruolamento nell'Esercito del Popolo. Di chi non lesina sforzi e si inventa ogni giorno nuove modalità per conquistare una patria bella per tutti gli emarginati, poiché ha scelto di assumersi il dovere storico di resistere alla tirannia, all'ingiustizia e al terrore di una classe criminale e narco-paramilitare che vuole mantenere la sua classe, il suo popolo, sottomesso nel dolore, nell'ignoranza e nell'inquietudine. […] Siamo militanti della dignità, della pace con giustizia sociale. La nostra statura morale è chiaramente lontana dalla definizione che danno le élite dominanti. La morale comunista è un bene imprescindibile, che accresciamo nella pratica del nostro stile di vita. È per questo che non esitiamo e nonostante sia difficile vedere i compagni cadere, grazie al loro esempio di vita militante andiamo avanti senza cedere davanti alla crudezza della guerra. La nostra morale è fariana, indistruttibile e impenetrabile, perché costruita sull'amore, il dolore e la convinzione dalla giustezza del nostro obiettivo, cioè strappare il potere all'oppressore e avviare quelle trasformazioni sociali che esigiamo come popolo. Come si può vedere, non esiste un solo sistema di valori, ma molteplici e diversi che dovranno incontrarsi e dialogare in un paese che attende l'attuazione di un processo di pace stabile e durevole. È vano lo sforzo mediatico di volerci equiparare a criminali o narcotrafficanti, poiché è impossibile sovrapporre due pratiche e sistemi di valori antagonisti tra loro e che in comune hanno unicamente lo scenario in cui si scontrano, quello della guerra. Una guerra imposta dalle élite e fino ad oggi da noi combattuta per la creazione di un paese in pace, con giustizia sociale, di una Patria grande e socialista. Vinceremo». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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LA MORALE DEL RIVOLUZIONARIO CONTRO LE MORALI DELLA BORGHESIA (nell'anniversario della fondazione delle FARC) Quello che segue è uno scritto di Antonia Bolivar Azurduy, membro del Partito Comunista Clandestino Colombiano (il corrispettivo politico delle FARC), dalla regione sud-occidentale, datato novembre 2014; è forse più utile di molte altre analisi per capire lo spirito di un popolo e di una lotta che dura da 60 anni: «Per noi, come rivoluzionari, la morale non è semplicemente un sistema di tradizioni e di valori costruito storicamente, che emerge come cultura attraverso la pratica generalizzata delle persone in un determinato territorio. Infatti, quello della morale è un concetto che diviene astratto se collocato nel contesto colombiano, rendendo evidente che esso è stato modellato sui principi “etici” egemonici occidentali, ossia escludenti per “natura” verso di noi, i colonizzati. Nella nostra realtà, quelle pratiche e valori che si evidenziano all'interno delle differenti classi, settori e attori colombiani che vivono una moralità specifica, contraddistinta chiaramente, vedremo che esistono vari sistemi di valori che sono il prodotto della realtà sociale. Sono moralità che capitano in un paese in guerra, con profonde diseguaglianze sociali, economiche, politiche, culturali e ambientali, immerse nella lotta di classe e sotto il giogo del terrorismo di stato. Aspetti questi che determinano sia la psiche, sia i principi che guidano l'azione sociale di ciascun attore individuale e collettivo della società colombiana, ma che inoltre distinguono e definiscono secondo l'essenza etico-morale di ogni agente sociale. […] La morale del soldato di leva è la morale del ragazzo ignaro di esser stato reclutato per una guerra che non capisce, né desidera. Vuole mettere fine il prima possibile all'inferno che significa “svolgere il servizio militare” per poter tornare al suo quartiere, in un angolo ma in salvo dall'essere colpito da un proiettile, dall'esser colpito dai suoi superiori, dagli abusi e dalle violenze psicologiche finalizzate a condizionarlo contro un nemico che non conosce, né riconosce quando attraversa le strade o marciapiedi. Perché è solo un ragazzo delle città, delle baraccopoli, un espropriato, un uomo costretto ad andare in guerra. Senza diritto all'istruzione o al lavoro, ma obbligato ad essere carne da cannone delle élite che lo condannano alla povertà. La morale dei soldati professionisti che commettono crimini di guerra, quelli responsabili dei mal definiti “falsi positivi” [civili uccisi dall'esercito e fatti passare per guerriglieri, ndt], è la morale di chi non ha principi etici di fronte a sé o all'umanità, né amore per le persone che ha giurato di difendere. È la morale di chi spera di esibire una perdita nemica, un morto quale che sia, anche innocente, per ottenere benefici economici e un permesso di 72 ore. È la motivazione di un criminale al servizio dello Stato, del mercenario senza patria e senza coscienza di classe, perché sebbene non venga dalle alte sfere della società, non gli importa di uccidere quelli che sono nelle sue stesse condizioni sociali per difendere gli interessi degli sfruttatori. La morale del sicario, è la morale del bambino, dell'adolescente che non ha imparato a leggere o scrivere, ma che sa che la vita è qualcosa di temporaneo, che ha un prezzo che lui intende riscuotere. È la morale di chi ha disperatamente bisogno del pane sul tavolo, della sua “dose personale” e dell'illusoria scappatoia del denaro che scompare così velocemente come la vita a cui pone fine. È la morale dell'emarginato sociale, che non ha alcuna opportunità, che è una vittima del sistema sotto il controllo dei gendarmi, legali e illegali, a loro volta privati dallo stesso sistema oppressivo e miserabile. È la morale della vittima dell'esclusione sociale che non si cura di farsi carnefice per assicurarsi il suo, anche se nel farlo egli stesso muore.
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LA DISUGUAGLIANZA SOSTANZIALE (3° parte - sugli USA) Perfino negli USA, la maggiore potenza capitalistica mondiale, i dati sono allarmanti. Nel 2009 Laura Pennacchi scriveva che «i 25 milioni di americani più ricchi posseggono un reddito equivalente a quello di 2 miliardi di persone povere, il 5% più ricco della popolazione ha un reddito di 114 volte superiore a quello del 5% più povero, i 400 americani più ricchi hanno un reddito superiore a quello di 166 milioni di abitanti dell’Africa». Così invece Domenico Maceri, docente di lingue al college californiano Allan Hancock di Santa Maria: «nel 1992 i 400 cittadini statunitensi con il reddito più alto guadagnavano una media di 40 milioni all’anno. La cifra attuale è di 227 milioni. Durante questo periodo le tasse di questi ultraricchi sono diminuite dal 29% al 21%. Queste riduzioni delle tasse ai più abbienti coincidono con l’aumento della povertà negli Stati Uniti. Secondo dati pubblicati dall’US Census, il censimento statunitense, il 15% degli americani, ossia 46 milioni, sono classificati come poveri. Per quanto riguarda la classe media il reddito negli ultimi tempi è rimasto stagnante. […] Il crescente divario economico fra classe ricca e povera degli ultimi tempi è il più marcato del secolo scorso e di questo, eccetto per la Grande Depressione degli anni ‘30». Warren Buffett, da decenni stabilmente tra i primi 5 più ricchi del mondo, con un patrimonio personale attuale di oltre 100 miliardi di dollari, nel 2011 ha fatto notare candidamente come lui stesso pagasse all’erario il 17,4% sul suo reddito annuo (all’epoca di 40 milioni di dollari) da investimenti finanziari, mentre la sua segretaria e gli impiegati del suo ufficio versassero in media il 36% del proprio reddito da lavoro. Una situazione talmente eclatante da far confessare allo stesso Buffett che: «c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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6) La gran parte degli errori precedenti dipende in ultima analisi dall'adesione ad un progressivo revisionismo ideologico che ha portato all'abbandono del marxismo-leninismo. Il dato è esplicitato nel XV Congresso del PCI del 1979, nel quale Berlinguer in persona propone e fa passare la modifica dello Statuto del Partito, eliminando i riferimenti all'ideologia marxista-leninista (articolo 5) per affermarne la “laicità”. 7) L'aver difeso senza riserve lo Stato borghese durante la stagione del “caso Moro”, diventandone di fatto il primo difensore, connivente con chi nella DC e nella CIA voleva Aldo Moro morto. Prima dell'attentato di via Fani le BR contano, secondo alcuni sondaggi, il 25% del consenso tra la classe operaia, che in una maniera o nell'altra simpatizza con le loro azioni tese a colpire il regime borghese guidato dai democristiani. Berlinguer non era certo obbligato a sostenerli, ma poteva cercare uno spazio diverso come fece Craxi (che chiedeva l'avvio delle trattative per salvare Moro e riconoscere politicamente l'organizzazione BR, sperando di trasformarla così in soggetto politico) oppure come fece il grande intellettuale Sciascia proclamando «né con lo Stato né con le BR». Particolarmente rilevante appare l'abbandono formale del marxismo-leninismo dallo Statuto. Su questo tema vale la pena riportare quanto scritto da Costanzo Preve: «Negli anni Ottanta il vecchio dinosauro PCI è come un bastimento alla deriva. Come tutti i dinosauri, ha ormai un corpo grande ma una testa minuscola. Il togliattismo progressista e storicista si era già squagliato come un mucchio di neve al sole. La sconfitta operaia alla FIAT aveva di fatto sancito, con questa battaglia difensiva di retroguardia, la fine della funzione di opposizione e di contestazione della classe operaia di fabbrica in Italia. Gli intellettuali, che lungi dall’essere individualisti come spesso stupidamente si dice da chi non li conosce bene, sono invece profondamente conformisti e gregari e si muovono tutti insieme come banchi di pesci, si mossero negli anni Ottanta in gruppo dal gramscismo al pensiero debole postmoderno. Ai posti di comando PCI non arrivarono i vecchi maneggioni togliattiani di destra (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, ecc.), ma i giovani nichilisti della FGCI che avevano consumato integralmente la morte di Dio diventando così dei nicciani “ultimi uomini” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, ecc.). Un partito senza teoria è come un popolo civile senza metafisica, per usare l’espressione di Hegel. Il PCI degli anni Ottanta è un partito senza teoria, senza strategia e senza tattica. Un povero bestione barcollante, che trova inevitabilmente nella deriva identitaria il solo collante che possa ancora dare senso di appartenenza ai militanti ed agli elettori smarriti. Il partito si ammalò di “craxite”, cioè di personalizzazione polemica contro la figura del cinghialone e del ladrone, cui venivano contrapposti gli austeri ed onesti comunisti. La lettura delle riviste degli anni Ottanta (e di Linus in particolare, brodo di coltura di tutti i morettismi successivi) è in proposito ad un tempo agghiacciante ed esilarante. Non esiste più analisi strutturale delle classi e dei rapporti sociali, ma solo una insistita e maniacale polemica contro i ladroni socialisti. Ora, non nego che i socialisti fossero veramente dei ladroni, e lo erano appunto perché non disponevano delle collaudate idrovore di finanziamento strutturale DC e PCI (industria di stato, finanziamenti esteri, cooperative, ecc.), e dovevano supplire con una sorta di dilettantismo brigantesco. Ma questa non era che la superficie pittoresca del problema, così come lo è oggi la “berlusconite”, cui la “craxite” assomigliava come una goccia d’acqua. La personalizzazione mediatica del conflitto è il più evidente sintomo della avvenuta americanizzazione culturale. Tramonta Gramsci, ascende Fassino.
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Non a caso, quando alla fine del 1989 si sgretolò il baraccone tarlato dell’Est, Fassino dichiarò che il PCI non aveva potuto seguire bene il fenomeno perché impegnato nelle elezioni comunali romane del 1989. Trovo questa dichiarazione inconsapevole da teatro dell’assurdo assolutamente sublime, come le discussioni sul sesso degli angeli degli ultimi bizantini mentre i turchi entrano in città (anche se penso si tratti di una leggenda metropolitana, perché non mi risulta)». Vediamo ora il lucido punto di vista di Domenico Moro: «Sul PCI ci sono due questioni da affrontare: una è quella della strategia della cosiddetta “via italiana al socialismo” e l’altra quella del lento degradamento del PCI a partire dagli anni ’70. La via italiana al socialismo, basata su un percorso progressivo pensato attorno alle riforme di struttura e all’attuazione della Costituzione, si fondava sull’esistenza di un forte campo socialista, guidato da una rispettata Unione Sovietica, su una fase espansiva dell’economia, con una forte presenza dello Stato nell’economia, e soprattutto su una forma ancora prevalentemente nazionale del capitalismo e parlamentare di governo. Tutti aspetti questi che sono venuti a modificarsi tra la metà degli anni ’70 e la fine del secolo scorso. Inoltre, nel corso dei decisivi anni ’70 ci sono stati importanti errori politici e cedimenti di carattere ideologico da parte del PCI. Le vicende cilene furono interpretate come la dimostrazione dell’impossibilità di governare con il 51% e della necessità di costruire un “compromesso storico” con la DC, passando così dalla strategia dell’“alternativa di sinistra” a quella dell’“alternativa democratica”. Il PCI, incoraggiato dai successi elettorali e nel tentativo di dimostrarsi forza matura di governo, fece importanti concessioni, dalla linea dell’“austerità” (la politica dei due tempi, ovvero l’accettazione dei sacrifici per tirare fuori il paese dalle difficoltà), che spinse la CGIL al contenimento rivendicativo, fino al riconoscimento della NATO. In questo modo, il PCI rinunciava all’opposizione senza che fossero cadute le riserve nei suoi confronti e, pur essendo entrato nella maggioranza di governo durante la “solidarietà nazionale”, fu costretto ad uscirne subito dopo. In sostanza il PCI fallì la sua strategia governista, alienandosi nello stesso tempo molte simpatie, soprattutto tra i giovani, e perdendo alle elezioni del ’79 tutti i guadagni realizzati nel ’76. La maggioranza del gruppo dirigente comunista non capì fino in fondo la natura di classe della DC né le caratteristiche dell’offensiva del capitale in atto, basata proprio sull’austerità, illudendosi sulla natura neutrale delle istituzioni statali e della democrazia borghese. Dopo la sconfitta, Berlinguer tento di rettificare la linea politica del PCI, ma la morte gli impedì di proseguire. Successivamente, il PCI, privo di una leadership autorevole e sempre più permeabile all’offensiva politico-culturale avversaria e all’eclettismo ideologico, si trasformò in un partito sempre più lontano, soprattutto nel nuovo gruppo dirigente che si stava formando, dalle sue radici comuniste. Il suo scioglimento e la trasformazione in PDS furono, dunque, il risultato di errori di strategia e soprattutto di una lunga operazione di svuotamento ideologico dall’interno». In definitiva: bisogna riconoscere a Berlinguer uno spessore ed uno statuto politico importanti, ben superiori alla media dei dirigenti politici comunisti a lui successivi. Ciononostante occorre affermare che la netta degenerazione del PCI ha subito un'accelerazione decisiva durante gli anni della sua Segreteria. Il PCI di Togliatti è un Partito che si pone ancora su una linea di netta alternatività di classe, in senso antimperialista e che si propone di costruire il socialismo secondo una via pacifista (ma tutelandosi con un apparato paramilitare alle spalle): quest'ultima modalità, pur risultando revisionista rispetto al leninismo, è pur tuttavia legittimata ormai dallo stesso movimento comunista internazionale dell'epoca.
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Se quest'ultimo la intende come un ridare valore alla democrazia liberale borghese e al pluripartitismo, il PCUS avrebbe dovuto coglierne il messaggio della necessità di una maggiore lotta contro la burocratizzazione, il verticismo gerarchico e le sempre maggiori diseguaglianze interne, cercando gli strumenti per un maggiore coinvolgimento degli strati popolari più coscienti e lavorando al miglioramento del livello politico e ideologico di quelli meno coscienti. 7) L'aver introdotto per primo il tema di uno sviluppo umano eco-sostenibile diverso dal mero aumento quantitativo di merci. Nei discorsi del 1977 la sua concezione dell'austerità non prevede di impoverire i lavoratori bensì di mettere in guardia dall'idea che la felicità individuale passi dal mero consumismo sfrenato, mettendo in guardia dalla corrispondenza tra progresso e accettazione di ogni bisogno indotto dalla società capitalistica. Quali sono stati però i suoi grandi errori? 1) Sotto la sua Segreteria sono avvenuti i maggiori cedimenti ideologici (anzitutto economici) non solo di una sua parte (il rafforzamento dell'ala migliorista guidata da Napolitano, che si sarebbe dovuta cacciare subito) ma dell'intero Partito. Diamo per assodato il punto di partenza della “via italiana al socialismo”. Come è stata articolata? L'ossessione della legittimazione governativa (riconducibile ad una degenerazione marxianamente nota come «cretinismo parlamentare») ha portato il PCI a trasformare la politica del compromesso storico (1973-76), che poteva avere un senso dal punto di vista meramente tattico, nella stagione dell'austerity condotta attraverso il periodo della solidarietà nazionale (1976-79), durante la quale il partito si è alienato le simpatie di milioni di lavoratori, perdendo il contatto con gran parte dei movimenti giovanili/studenteschi e iniziando un declino elettorale ininterrotto il decennio successivo. 2) Il primo compito di un dirigente deve essere preparare la sua successione. Emerge con nettezza l'incapacità di aver saputo crescere una nuova leva di dirigenti all'altezza della situazione. Fassino, D'Alema, Mussi, Vendola, Bassolino, Turco, Occhetto sono tutti stati “allevati” sotto la Segreteria Berlinguer. 3) Nel 1974 Berlinguer decide personalmente di smantellare l'impianto para-militare clandestino del PCI (celato sotto il nome di “Commissione Antifascismo”) rimasto in vita sottotraccia durante tutta l'epoca Togliatti, rendendo palese come la via democratica al socialismo sia non un passaggio tattico, ma una questione strategica e di sostanza. In questa maniera però ha subito la destabilizzazione interna e internazionale che preparava possibili colpi di Stato nel paese. Il passaggio assai delicato è infatti avvenuto proprio negli anni in cui esplodono le bombe neofasciste della “Strategia della Tensione” e in cui i generali organizzano progetti di golpe militari per ogni evenienza. Il tragico errore è lo stesso di quello compiuto da Allende in Cile, con l'aggravante che quest'ultimo non si era trovata già pronta ad uso difensivo una “Gladio rossa”. 4) La critica all'URSS e al socialismo reale si è spinta ad un livello inaccettabile, portando il PCI a rompere con i paesi e le relative organizzazioni operaie alleati. Berlinguer ha di fatto portato il Partito fuori dal movimento comunista internazionale preparando, se non in maniera volontaria, nei fatti, il suo ingresso nel campo della socialdemocrazia europea. 5) L'aver intrapreso la fallimentare politica dell'eurocomunismo, con cui ha per un certo periodo legittimato la NATO e avallato l'idea che si potesse costruire un'Europa dei popoli, invertendo una politica di netta ed esplicita contrarietà alle istituzioni europee che aveva caratterizzato il PCI come tutte le altre organizzazioni comuniste. Era infatti analisi condivisa la natura di classe borghese degli organismi europei che si stavano costruendo dall'inizio degli anni '50. Ciò dipende in primo luogo da un'inadeguata applicazione della categoria analitica leninista dell'antimperialismo.
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UN BILANCIO POLITICO DELLA SEGRETERIA BERLINGUER «In Italia […] l'anticomunismo contribuì, in modo determinante, all'affermazione dell'atlantismo. Furono, infatti, la paura e l'avversione al comunismo a rimuovere le pregiudiziali neutraliste e anticapitaliste, presenti tanto nel mondo cattolico quanto nella destra storica e in quella neofascista, favorendo l'inserimento dell'Italia nel mondo occidentale e nell'alleanza atlantica. A sua volta, l'atlantismo condizionò gli equilibri politici tracciando un confine invalicabile che nessun compromesso e nessuna convergenza politica o parlamentare avrebbe potuto superare. Questo confine fu avvertito e denunciato dal PCI come una ingiusta discriminazione nei suoi confronti, addirittura la ragione ultima della mancata conquista della maggioranza elettorale. Anche da parte della DC la scelta atlantica del 1949 fu sofferta politicamente, tanto che una latente opposizione sopravvisse per qualche tempo in alcune frange della sua sinistra interna. L'atlantismo finì per essere adottato anche dalle forze politiche che l'avevano avversato nel 1949. Per primo lo adottò il MSI, nel 1952, attraverso l'anticomunismo; e dieci anni dopo, nel 1963, anche il PSI. Nel 1975-77 perfino il PCI si espresse per l'accettazione della NATO, sia pure con forti ambiguità nel gruppo dirigente e marcate resistenze nella base, che si manifestarono poi nella mobilitazione pacifista contro l'installazione degli Euromissili e contro la guerra nei confronti dell'IRAQ (e quest'ultima proprio in occasione del congresso che sancì la trasformazione del PCI in PDS)». (Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 2001) «Nel decennio decisivo 1964-1973 il PCI diventa uno strumento diretto per l’integrazione di grandi masse studentesche ed operaie nel sistema capitalistico. Non si tratta a mio avviso di un “tradimento”, ma di una funzione fisiologica tipica di ogni normale socialdemocrazia europea moderna. […] Io ripeto fino alla nausea: non ci fu tradimento. Tutti coloro che fantasticano di una situazione rivoluzionaria causata dalla sinergia delle lotte studentesche del 1968 e delle lotte operaie del 1969, con un “autunno caldo” che sembrò protrarsi fino al 1973, costruiscono a mio parere un mito storiografico estremamente diseducativo per le nuove generazioni. Bisogna distinguere in proposito fra due livelli storici distinti, il livello della dinamica superficiale ed il livello della dinamica profonda. La dinamica superficiale era quella della formazione di gruppi rivoluzionari (Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo in una prima fase, e poi i gruppi armati in una seconda fase) che mettevano all’ordine del giorno una rivoluzione di tipo socialista. In termini marxiani, si trattò della falsa coscienza necessaria, ma illusoria, di un’intera generazione. La dinamica profonda era invece quella della integrazione in un capitalismo dei consumi, una dinamica che ovviamente avvenne in modo diverso per gli studenti e per gli operai. Gli studenti confusero un processo di modernizzazione del costume per un processo anticapitalistico, e questa confusione fu propiziata da una ideologia invecchiata che identificava la borghesia con il capitalismo, e non capiva che il capitalismo maturo per poter allargare il proprio spazio di mercificazione universale deve far fuori lui stesso i vecchi residui moralistici borghesi tradizionali. I posteriori esiti innocui di tipo pacifista, ecologista e femminista erano già dialetticamente contenuti in potenza dall’impossibilità di qualunque rivoluzione socialista in Italia. Un discorso diverso deve essere fatto per gli operai. Nella loro stragrande maggioranza (e chi vive a Torino lo ha chiaro come il cristallo, mentre solo chi vive a Teramo o a Benevento può non capirlo) gli operai sanno perfettamente di non potere “dirigere tutto”, e di aver bisogno per difendere i loro interessi di una classe politica e sindacale istituzionalizzata e professionalizzata.
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L'ottica è quella di costruire una democrazia “progressiva” che ponga l'Italia fuori dalle strutture imperialiste (NATO e CEE), ricostruendo politiche economiche progressive sulla base del nesso tra sovranità popolare e sovranità nazionale. A suo modo, la posizione di Togliatti è, considerato il contesto, ancora su posizioni di un “riformismo rivoluzionario” per un paese posto sotto l'egida degli USA. Il PCI di Berlinguer è invece un Partito che abbandona tutti gli aspetti progressivi ancora presenti sotto Togliatti, diventando di fatto e nella sostanza un Partito socialdemocratico moderno, cedendo non solo sul leninismo e sull'appartenenza internazionale al movimento comunista, ma addirittura su alcune categorie marxiste fondamentali, lasciando progressivamente campo aperto a ideologie alternative fondate su logiche corporative, aclassiste, morali e perfino cristiane. Perfino l'antimperialismo, ribadito nei discorsi e in molti atti concreti di solidarietà internazionale, si dissolve nella sciagurata idea di poter democraticizzare le istituzioni imperialiste europee, secondo una logica totalmente antileninista che sarà ancora il cardine del progetto de “L'Altra Europa con Tsipras” (elezioni europee del 2014), caratterizzando l'impostazione ideologico-politica della sinistra italiana per oltre 40 anni, facendole così dimenticare tutta l'avanzata elaborazione della storia precedente, iniziata come abbiamo visto con le polemiche poste da Lenin e Rosa Luxemburg al concetto degli “Stati Uniti d'Europa” già negli anni della prima guerra mondiale. La crisi successiva della sinistra italiana, se non è certamente ascrivibile al solo Berlinguer, non lo vede al contempo esente da enormi responsabilità, di cui sarebbe opportuno prendere atto, rifuggendo dalla consueta pantomima del ritratto agiografico che poco può servire al movimento operaio italiano. Per noi rimane un compagno in buona fede, che come tutti gli altri comunisti della Storia, ha saputo dare contributi utili e meno utili. Non dimentichiamo la sua lezione, nel bene e nel male. [Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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È questa la chiave del balzo in avanti elettorale del PCI dal 1968 al 1976. Il PCI garantiva alla piccola borghesia una stabile modernizzazione e liberalizzazione del costume contro i residui del tradizionalismo clericale, ed alla nuova classe operaia di recente emigrazione un processo graduale di integrazione nella società. In assenza di qualunque prospettiva rivoluzionaria […] era il massimo che si poteva ottenere, ed il PCI contribuì ad ottenerlo. Dunque, nessun tradimento sociale e politico. Il tradimento però ci fu lo stesso, e fu un tradimento culturale terribile. In una parola: il graduale processo di modernizzazione del costume e di integrazione sociale delle classi popolari nel capitalismo fu fatto passare per una sapiente “via italiana al socialismo” ed addirittura per “eurocomunismo”. In questo modo si contribuiva ad un vero e proprio “impazzimento ideologico” di cui continuiamo ancora oggi a pagare i prezzi». (Costanzo Preve) La figura di Berlinguer è ricordata con affetto da milioni di persone, tanto da essere considerato l'ultimo grande dirigente della sinistra italiana. Per certi versi è sicuramente vero, ma è necessario tracciare un quadro meno agiografico della sua pur imponente figura, segnalando non solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi della sua guida politica. Quali sono stati i suoi meriti: 1) Con la politica del compromesso storico ha portato il PCI al 34% del consenso (nelle Politiche del '76, ad un passo dalla maggioranza relativa), garantendo al paese una forza progressista tale da consentire o sostenere conquiste fondamentali come lo Statuto dei Lavoratori, la Scala Mobile, il servizio sanitario nazionale, l'aborto, il divorzio, i salari più elevati d'Europa, ecc.; il fatto che la NATO avesse già pronti i piani di golpe evidenzia come il PCI costituisse ancora un pericolo per gli interessi dell'imperialismo internazionale. 2) Lo spessore politico, morale, umano dell'uomo, dotato di grande cultura e ideali, modesto, schivo, totalmente alieno dalla logica deleteria della “casta” e dei privilegi. Nonostante sia di origine borghese è un generale con l'animo ed uno stile di vita proletario non solo nei discorsi, ma anche nelle vicende private e nel modo di fare politica. 3) Aver saputo anticipare la questione morale almeno un decennio prima dello scandalo di Tangentopoli, denunciando quella partitocrazia che si fonda sul Pentapartito e che per decenni divora il paese. Di fronte alle avvisaglie del totalitarismo liberale odierno, ne trae la conclusione, negli anni '80, che il PCI non possa allearsi con nessuno, entrando in quello che è stato definito “lo splendido isolamento” del Partito; l'analisi non è propriamente marxista, ed avrà effetti deleteri negli anni, ma la conclusione politica nell'immediato porta ad un posizionamento conflittuale adeguato. 4) La capacità di saper riconoscere i propri errori e di invertire la rotta, come fatto nell'ultima fase della sua Segreteria (1979-84) abbandonando la politica della “solidarietà nazionale” e tornando a proporre un'alternativa di classe, sostenendo in prima persona le lotte degli operai come quelli della FIAT, sfociate nel referendum sulla scala mobile contro le abrogazioni del governo Craxi. 5) Il non aver mai voluto abbandonare l'idea che il PCI dovesse restare un partito comunista dotato della cultura marxista; Berlinguer rifiuta sempre la svolta verso un modello socialdemocratico, il cui campo può al più rappresentare un alleato ma non l'identità stessa del partito. 6) L'aver combattuto la staticizzazione del concetto di comunismo, cristallizzatosi nei paesi dell'Europa dell'Est in forme di socialismo non esenti da errori e contraddizioni. La questione posta da Berlinguer di tendere verso un sempre maggiore nesso tra democrazia e socialismo poteva e doveva essere accolta per tempo dall'URSS in termini però diversi da quelli posti dal segretario del PCI.
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Repost from Resistenza Popolare
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Pubblichiamo il video dell'intervento di Alessandro Pascale in rappresentanza di Resistenza Popolare al termine della manifestazione di Roma di ieri, in conclusione di una grande manifestazione che ha raccolto oltre 10 mila persone contro il governo Meloni. In due minuti di rabbia Popolare abbiamo ribadito che il modo migliore per contestare la guerra è lottare per l'uscita dell'Italia dalla NATO e dall'UE.
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DAL PROGRAMMA ALL’ORGANIZZAZIONE (2° parte) In generale si pone la necessità di organizzare un “programma” di rivendicazioni minime ed immediate, come spiegano Nikolaj Bucharin e Yevgeni Preobrazenskij: «ogni partito persegue determinati obiettivi, sia esso un partito di latifondisti o capitalisti che di operai o contadini. Ogni partito deve avere i suoi obiettivi, altrimenti esso perde il carattere di partito. Se è un partito che rappresenta gli interessi dei latifondisti, esso perseguirà gli obiettivi dei latifondisti: in quale modo si possa mantenere il possesso della terra, tener soggetti i contadini, vendere il grano a prezzi più alti, ottenere prezzi d’affitto superiori, e procurarsi operai agricoli a buon mercato. Un partito di capitalisti, di industriali, avrà ugualmente i suoi propri obiettivi: ottenere mano d’opera a buon mercato, tenere in freno gli operai industriali, cercare nuove clientele alle quali si possa vendere le merci ad alti prezzi, realizzare alti guadagni e a tal fine aumentare le ore di lavoro, e soprattutto creare una situazione che tolga agli operai ogni velleità di aspirare ad un ordinamento sociale nuovo: gli operai debbono vivere nella convinzione che padroni ve ne sono sempre stati e ve ne saranno anche nell’avvenire. Questi gli obiettivi degli industriali. S’intende che gli operai e contadini hanno obiettivi ben diversi, essendo ben diversi i loro interessi. Un vecchio proverbio russo dice: “Ciò che è salutare per il russo, è mortale per il tedesco”. Sarebbe più appropriata la seguente variante: “Ciò che è salutare per l’operaio, è mortale per il latifondista e per il capitalista”. Ciò significa che il lavoratore ha uno scopo, il capitalista un altro, il latifondista un altro. Ma non tutti i proprietari si occupano con assiduità ed accortezza dei loro interessi, e più di uno vive nell’ozio e nei bagordi non curandosi nemmeno di ciò che gli presenta l’amministratore. Ma vi sono anche molti operai e contadini che vivono in questa noncuranza ed apatia. Essi ti dicono: “In un modo o nell’altro si camperà la vita, che m’importa il resto? Così hanno vissuto i nostri antenati e così vivremo anche noi”. Questa gente s’infischia di tutto e non comprende nemmeno i suoi propri interessi. Coloro invece che pensano al modo migliore di far valere i propri interessi si organizzano in un partito. Al partito non appartiene quindi l’intera classe, ma soltanto la sua parte migliore, la parte più energica, ed essa guida tutto il rimanente. Al partito dei lavoratori (il partito dei comunisti bolscevichi) aderiscono i migliori operai e contadini. Al partito dei latifondisti e capitalisti […] aderiscono i più energici latifondisti e capitalisti ed i loro servitori: avvocati, professori, ufficiali, generali, ecc. Ogni partito abbraccia quindi la parte più cosciente di quella classe i cui interessi esso rappresenta. Perciò un latifondista o capitalista organizzato in un partito combatterà i suoi contadini od operai con maggiore efficacia di uno non organizzato. Nello stesso modo un operaio organizzato lotterà contro il capitalista o latifondista con maggiore successo di uno non organizzato; e ciò perché egli si è reso conscio degli interessi e delle finalità della classe operaia, e conosce i metodi più efficaci e più rapidi per conseguirli. L’insieme degli obiettivi, cui un partito aspira nella difesa degli interessi della propria classe, forma il programma di questo partito. Nel programma sono formulate le aspirazioni di una data classe. Il programma del partito comunista contiene quindi le aspirazioni degli operai e dei contadini poveri. Il programma è la cosa più importante per ogni partito. Dal programma si può sempre giudicare di chi un dato partito rappresenti gli interessi». L’esigenza di un partito rivoluzionario dotato di una precisa ideologia e chiaro nei suoi obiettivi è imprescindibile, come verrà ribadito da tutti i grandi comunisti del ‘900, da Lenin a Gramsci, da Stalin a Mao, passando per Fidel Castro, “Che” Guevara, ecc.
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Alcuni obiettivi saranno necessariamente transitori e contingenti, quindi tattici, e costantemente subordinati all’obiettivo di fase fondamentale per il partito all’opposizione del regime: la presa del potere politico. Così la Piattaforma originaria dell’Internazionale Comunista: «La conquista del potere politico da parte del proletariato comporta l’annientamento del potere politico della borghesia. L’apparato statale, con l’esercito capitalistico messo sotto il comando di un corpo di ufficiali borghesi o nobili, con la polizia e i carabinieri, le carceri e i giudici, i preti, i funzionari, ecc. costituisce nelle mani della borghesia il più importante strumento di governo. La conquista del potere statale non può ridursi a un mutamento della formazione dei ministeri ma deve significare: l’annientamento di un apparato statale estraneo, la presa di possesso delle leve effettive, il disarmo della borghesia, del corpo di ufficiali controrivoluzionari, delle guardie bianche, l’armamento del proletariato, dei soldati rivoluzionari e della guardia rossa operaia; la destituzione di tutti i giudici borghesi e l’organizzazione di tribunali proletari, la distruzione della burocrazia reazionaria e la creazione di nuovi organi proletari di amministrazione. La vittoria proletaria si assicura con la disorganizzazione del potere nemico e l’organizzazione del potere proletario; deve significare la demolizione dell’apparato statale borghese e la creazione dell’apparato statale proletario. Solo dopo la completa vittoria, quando avrà spezzato la resistenza della borghesia, il proletariato potrà obbligare i suoi antichi avversari a servirlo utilmente, riducendoli progressivamente sotto il suo controllo, nell’opera di costruzione del comunismo». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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Santoro, l'ultimo eminente rappresentante della sinistra della NATO.
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MUHAMMAD ALI, CAMPIONE NELLO SPORT COME NELLA VITA «Non ho visto un singolo mendicante per le strade della Russia sovietica. Non mi sono mai sentito così sicuro, non vi è nessun rischio di essere derubati. Mi è stato detto che in Unione Sovietica non c’è libertà di religione, ma in realtà i musulmani, i cristiani e gli ebrei praticano liberamente il loro culto. Credo che il rapporto tra i nostri popoli sia negativo solo a causa della falsa propaganda». (Muhammad Alì) A 8 anni dalla morte, un ricordo di Muhammad Alì, nato Cassius Marcellus Clay Jr. (Louisville, 17 gennaio 1942 – Phoenix, 3 giugno 2016): il pugile statunitense è tra i maggiori e più apprezzati sportivi della storia, sia per le sue gesta sportive, sia per la sua statura etico-umana, manifestatasi nella polemica contro il razzismo statunitense. In quegli anni è spesso a fianco di Malcolm X, di cui condivide le istanze del black power, seppur declinato in un’ottica religiosa. Vince l’oro Olimpico ai Giochi di Roma nel 1960 e come pugile professionista detiene il titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un’ultima breve parentesi ancora nel 1978. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiuti di onorare la patria colpevole della follia del Vietnam. Il 29 aprile 1967 Muhammad Ali-Cassius Clay viene infatti privato del titolo di campione del mondo di pugilato a causa del suo rifiuto di prestare il servizio militare per dichiarata contrarietà alla guerra in Vietnam, così giustificata: «la mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, non hanno mai stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera». Non una frase ad effetto, ma un grido della coscienza, una coraggiosa scelta etica che gli costa il ritiro della licenza e il ritiro obbligato dalle scene sportive per diversi anni, quelli in cui è al top del vigore fisico. Luca Baldelli commenta così: «Con eroica abnegazione, piena coscienza del suo ruolo e delle sue intime convinzioni, nonché dei doveri conseguenti, Alì pagò il prezzo di questo coraggio con la carcerazione e la cancellazione dei titoli guadagnati sul ring. Il potere yankee mostrò, in tal modo, al di là degli slogan sulla “democrazia“, i “ diritti “ e la “libertà“, il suo vero volto reazionario e repressivo verso ogni voce in dissenso con le false verità dell’establishment. Alì non si dette per vinto e continuò a gridare al mondo che il Re, che in molti vedevano vestito di tutto punto, era più nudo che mai. Uscito di prigione, il campione puntò tutto al riscatto della sua persona, metafora della lotta di tutta la gente di colore d’America ma anche di tutti gli sfruttati, gli emarginati, di tutti i popoli in lotta contro l’imperialismo. Ferrea, netta, fu, ad esempio, la sua solidarietà con la Rivoluzione cubana, artefice della creazione del “primo territorio libero d’America”». Nel 1996 e nel 1998, nel corso di due viaggi a La Habana, dona 1,2 milioni di dollari per acquistare attrezzature mediche e altro materiale necessario al consolidamento e alla difesa della sanità cubana, punta di diamante riconosciuta in tutto il mondo per il suo livello. Parole sincere di ammirazione sono spese da Muhammad Alì anche nei riguardi dell’URSS, da lui visitata nel 1978, con tanto di incontro “al vertice” con Leonid Brežnev, Segretario del PCUS. Muhammad Ali è diventato un simbolo del ‘900, per il mondo e soprattutto per i milioni di africani figli di un’oppressione coloniale secolare, che lo hanno accolto come un eroe nel titanico incontro di Kinshasa nello Zaire (1974) contro il più blasonato e prediletto (dai bianchi) George Foreman.
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3.10. MUHAMMAD ALI, CAMPIONE NELLO SPORT COME NELLA VITA

Non può infine mancare un ritratto di Muhammad Alì, nato Cassius Marcellus Clay Jr. (Louisville, 17 gennaio 1942 – Phoenix, 3 giugno 2016): il pugile statu

Sempre su questo tema leggiamo Baldelli: «L’incontro più emozionante e ricco di valenza simbolica, fu però quello della grande rivincita di Alì: il match con il Campione del Mondo Foreman in Zaire, il 30 ottobre del 1974. Il luogo scelto per l’incontro non fu certo casuale: dal Congo (questo il nome storico del paese) erano stati condotti in schiavitù negli Stati Uniti milioni e milioni di neri, tanto che una famosa piazza di New Orleans era denominata “Congo Square”. A guidare il paese, allora, era Mobutu Sese Seko, il quale investì sull’incontro tutto il suo prestigio e le sue aspettative di “riabilitazione“ agli occhi di una parte del mondo che lo identificava, e a ragione, come il protagonista principale del complotto contro il grande Lumumba, figura integerrima e leggendaria di combattente antimperialista. Quell’incontro era, per Alì, la “madre di tutte le battaglie” del riscatto: Foreman, emblema del nero “integrato”, coccolato e osannato dal potere bianco, ad onta della sua proverbiale scontrosità, era un avversario non solo fisico, ma anche ideologico, per un Alì che aveva fatto invece dello scontro col sistema, della lotta contro l’imperialismo, i soprusi e le ingiustizie, la sua ragione di vita. Prima di salire sul ring, in quell’occasione, Muhammad Alì pronuncerà ancora una volta parole cariche di significato, che possono essere definite una sorta di manifesto politico e sentimentale: “Io non combatto per il mio prestigio, ma per migliorare la vita dei miei fratelli più poveri che vivono per strada in America, i neri che vivono di sussidi, che non hanno da mangiare, che non hanno coscienza di se stessi, che non hanno futuro. Voglio vincere il titolo per andare tra i rifiuti con gli alcolizzati. Voglio stare in mezzo ai drogati, alle prostitute. Voglio aiutare la gente”. Contro ogni pronostico sapientemente pompato dalla stampa del regime, Alì vinse sul Campione Foreman, fino a quel momento protagonista di trionfi su calibri quali Frazier, destinato poi a battere Alì in un discusso incontro. L’Africa tutta esplose di gioia e voglia di riscatto, quel 30 ottobre del 1974, e con l’Africa tutto il mondo schiacciato, ma indomito, sotto il tallone dell’imperialismo: con Alì avevano vinto gli sfruttati, gli ultimi, i paria, il sale della Terra». Ricordiamo altri suoi discorsi che testimoniano una personalità unica: «Muhammad significa degno di lode, e Ali significa altissimo. Clay significa creta, polvere. Quando ho riflettuto su questo, ho capito tutto. Ci insegnano ad amare il bianco [white] ed odiare il nero [black]. Il colore nero significa essere tagliato fuori, ostracizzato. Il nero era male. Pensiamo a blackmail [ricatto]. Hanno fatto l’angel cake [pane degli angeli] bianco e il devil’s food cake [torta del diavolo] color cioccolato. Il brutto anatroccolo è nero. E poi c’è la magia nera... Quel che voglio dire è che nero è bello. Nel commercio il nero è meglio del rosso. Pensate al succo di mora: più nera è la mora, più dolce il succo. La terra grassa, fertile, è nera. Il nero non è male. I più grandi giocatori di baseball sono neri. I più grandi giocatori di football americano sono neri. I più grandi pugili sono neri». «Perché dovrebbero chiedermi di indossare un’uniforme e andare 10.000 miglia lontano da casa a far cadere bombe e proiettili sulla gente marrone del Vietnam, mentre i cosiddetti negri, a Louisville, sono trattati come cani e gli sono negati i semplici diritti umani? No, non andrò 10.000 miglia lontano da casa a dare una mano a uccidere e distruggere un’altra nazione povera, semplicemente perché continui il dominio degli schiavisti bianchi sulla gente scura di tutto il mondo. Questo è il giorno in cui diavoli di tal fatta devono sparire. Sono stato avvertito: prendere questa posizione mi potrebbe costare milioni di dollari. Ma l’ho detto una volta e lo ripeterò: il vero nemico del mio popolo è qui. Non andrò contro la mia religione, contro il mio popolo o me stesso diventando uno strumento per schiavizzare chi sta lottando per avere giustizia, libertà ed eguaglianza.
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Se pensassi che la guerra porterà libertà ed eguaglianza a ventidue milioni di miei simili non avrebbero dovuto arruolarmi: lo avrei fatto io, domani. Non perdo nulla restando fermo sulle mie posizioni. Andrò in prigione: e allora? Siamo stati in catene per quattrocento anni». «Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre». «Dentro un ring o fuori, non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra». «Chi non è abbastanza coraggioso da assumersi le proprie responsabilità non compirà niente nella vita». «L’uomo che non ha fantasia non ha ali per volare». «I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere l’abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte dell’abilità». [Fonte: https://www.storiauniversale.it/310-muhammad-ali-campione-nello-sport-come-nella-vita.htm. Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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3.10. MUHAMMAD ALI, CAMPIONE NELLO SPORT COME NELLA VITA

Non può infine mancare un ritratto di Muhammad Alì, nato Cassius Marcellus Clay Jr. (Louisville, 17 gennaio 1942 – Phoenix, 3 giugno 2016): il pugile statu

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DAL PROGRAMMA ALL’ORGANIZZAZIONE La rivoluzione del proletariato non può abolire in un tratto la proprietà privata, ma può trasformare progressivamente la società finché non si sia creata la quantità necessaria dei mezzi di produzione. La rivoluzione vuole fondare un nuovo patto sociale all’insegna di una costituzione democratica e popolare che garantisca l’esistenza dignitosa del proletariato e serva a preparare il percorso per il socialismo. Marx ed Engels stendono un programma rivoluzionario di riforme radicali del capitalismo, ammettendo la limitatezza di questi “principi”, ben consci di come siano storicamente determinati e non riapplicabili magicamente in ogni circostanza storica. Ne consegue anche un programma minimo in 10 punti per i «paesi più progrediti» che traccia la via da seguire e mantiene una certa attualità: «1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e l’impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato. 2. Imposta fortemente progressiva. [chi ha di più paghi di più; ndr] 3. Abolizione del diritto di eredità. [un aspetto completamente cancellato dal nostro paradigma teorico; ndr] 4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli. 5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo d’una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo. [in tempi in cui la sovranità monetaria è in mano alla BCE rimane validissimo... ndr] 6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato. [pensiamo alla privatizzazione e all’esternalizzazione dei servizi pubblici che va avanti da anni; ndr] 7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune. [notare che non si pone subito la rivendicazione della nazionalizzazione di tutte le attività, ma di incrementare la quantità di fabbriche nazionali, sottoposte cioè al controllo dello Stato operaio; ndr] 8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura. [il tema del lavorare tutti, lavorare meno... ndr] 9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e di quello dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna. [potremmo aggiungere in senso ampio anche la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale... ndr] 10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell’educazione e della produzione materiale, ecc.». [uno dei punti oggi che più è stato accolto, anche se continuano ad esserci spese non indifferenti per le famiglie degli studenti, ndr] [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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