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Cronache Ribelli

Cronache Ribelli è un progetto narrativo di rinnovamento della narrazione storica. Raccontiamo la storia degli ultimi. 📚Sito e shop: cronacheribelli.it 👍Facebook: Cronache Ribelli 📷Instagram: Cronache Ribelli Mail: [email protected]

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Paolo Secchiari, il padre, nacque a Gragnana, frazione di Carrara, nel 1865. Fin da giovanissimo si avvicinò alle idee anarchiche che, in quell’area della Lunigiana, si diffusero rapidamente tra i lavoratori del marmo. Lui, umile pastore, trasmise ai figli questi ideali e partecipò attivamente ai movimenti di lotta contro il governo Crispi che infiammarono la regione alla fine dell’Ottocento, venendo arrestato insieme ai fratelli. Da allora in poi Paolo sarà tenuto sotto osservazione dalle pubbliche autorità, ma gli anni peggiori inizieranno con la comparsa del fascismo sulla scena politica. Nel 1921 il circolo anarchico di Gragnana viene attaccato dai fascisti che picchiano numerose persone. Secchiari non si piega e così iniziano a perseguitarlo. Gli disperdono il gregge, gli gettano il latte e distruggono il formaggio. Poi il 6 agosto 1925 durante l’ennesima aggressione, i fascisti percuotono selvaggiamente anche sua moglie Giselda, che non si riprenderà mai dalle ferite riportate e morirà. Anche due dei suoi figli, Santino e Ceccardi, vennero uccisi in quegli anni: dopo l’ennesima violenza subita dai genitori, erano andati a vendicarli e avevano aggredito a coltellate uno dei fascisti che aveva picchiato la madre. Intercettati in due momenti dai carabinieri, saranno uccisi in scontri a fuoco. Dante, altro fratello, sarà invece incarcerato per diversi anni. Anche Silvia, loro sorella, subirà le conseguenze della sua fiera opposizione al fascismo. Malmenata ripetutamente dagli squadristi, rimase infine paralitica. Ma nonostante la disabilità non si piegò mai e continuò a manifestare i propri ideali, diventando un simbolo vivente di lotta. L’ultimo dei figli di Paolo Secchiari, Arturo, dopo l’Armistizio entrò nella Resistenza, all’interno della formazione Elio operante nella zona di Carrara e partecipò alla liberazione della città. Insieme a Dante, al padre e a Silvia sopravvisse alla guerra e al regime. Quest’ultima, seppur di umili origini e di basso grado di scolarizzazione, scriverà una toccante poesia per celebrare la fine del Ventennio, di cui qui riportiamo una parte. "Credevano che il fascio fosse in eternità E invece è un passaggio ch’è venuto e se ne va Non ci sarà una testa che vi perdonerà Le tante malefatte fino all’eternità."
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Era giovanissimo, Clément. Aveva 19 anni ed era originario di Brést, importante città della Bretagna occidentale. Un porto attivissimo che i numerosi lavoratori portuali hanno trasformato in una roccaforte dei movimenti e delle lotte. E dell’antifascismo. Quell’antifascismo che Clément si porterà dietro quando andrà a studiare a Parigi. Era anche un ragazzo dalla corporatura abbastanza minuta, sia di costituzione sia perché aveva affrontato - guarendo - una brutta leucemia, che lo aveva debilitato nel fisico ma non certo nella mente. Quel 5 giugno del 2013 Clément era con alcuni compagni in un negozio di abiti usati quando si imbatté improvvisamente in alcuni coetanei affiliati ai Jeune nationaliste revolutionnaire, un gruppo di estrema destra facente parte della grande galassia della destra eversiva francese, la quale strizza volentieri l’occhio al Front National. Clément e i suoi amici li riconoscono, partono le provocazioni e gli insulti ma alla fine i due gruppi si separano. Escono per primi gli antifascisti, che iniziano a dirigersi verso la metropolitana. Un addetto alla sicurezza del negozio, quando stanno per uscire gli altri, indica loro di andare in direzione opposta per non avere problemi. Loro invece seguono Clément e gli altri perché, come diranno in seguito, vogliono “evitare di farsi prendere alle spalle”. Quello che accadde negli istanti successivi venne dibattuto a lungo. Secondo i JNR furono gli antifascisti a tornare indietro per affrontare i rivali, i quali ribadiscono come la loro intenzione fosse di andare a prendere la metro e tornare a casa. Fatto sta che qualcuno raggiunse Clément e lo insultò. In brevi istanti partirono dei colpi. Clément rimase a terra: finirà in coma e morirà il giorno successivo. Secondo molti i colpi vennero sferrati utilizzando un tirapugni, circostanza confermata e smentita da diverse testimonianze, ma di cui uno dei responsabili si vanta via SMS, giustificandosi sulla base dell’“euforia” del momento. I tre responsabili della morte di Clément sono Esteban Morillo, di origine andalusa, Samuel Dufour et Alexandre Eyraud, tutti sui 20 anni. Nella loro vita privata, l’affiliazione all’estrema destra e un fascino indiscusso per Hitler e per la Germania nazista. E la negazione di questa vicinanza alle idee naziste al momento del processo, che terminerà con la condanna a 11 e 7 anni per Morillo e Dufour e l’assoluzione per Eyraud. In questi anni tanto, troppo si è detto sulla sorte di Clément Méric. Nella sua storia vi è però una chiara certezza: la sua morte fu la conseguenza dei colpi ricevuti il 5 giugno 2013 da 3 ragazzi appartenenti a un gruppo di estrema destra francese. La sua morte, soprattutto, fu la conseguenza del suo antifascismo.
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Se siete a Roma, questa sera non prendete impegni! Alle 20.30 interverremo con una nostra presentazione sulla Resistenza nell'evento Ugo e Noi, in memoria di Ugo Forno. Alle 22 presenteremo inoltre il talk "Letteraturap" con Murubutu, rapper e professore di storia e filosofia.
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Il 29 maggio del 1949 un gruppo di anarchici spagnoli, resistenti antifranchisti, varcano il confine dei Pirenei, entrando in Spagna clandestinamente dalla Francia. A guidarli, come decine, forse centinaia di altre volte, c’è Francisco Denis Diez. Francisco è anche lui in esilio in Francia, dalla fine della guerra civile e dall’inizio della dittatura di Franco. Ma la lotta non finisce con l’esilio. Catalá, questo il soprannome di Francisco, che ha vissuto per anni a Barcellona, è un anarchico e un sindacalista, membro del sindacato dei trasporti, e allo scoppio della guerra civile ha deciso di imbracciare le armi e combattere, diventando un importante commissario nella Colonna Durruti. Con la vittoria dei franchisti, Francisco fu tra i tanti costretti all’esilio, ma fu anche tra i tanti che non vollero smettere di lottare. E quale migliore contributo alla lotta, per un anarco-sindacalista con alle spalle una vita nel sindacato dei trasporti, se non aprire varchi attraverso i Pirenei, attraverso cui far passare decine di compagni della resistenza? In dieci anni Francisco fece entrare in Spagna decine di anarchici antifranchisti, tra cui anche “El Quico” Sabaté Llopart, alimentando così la resistenza al regime. Quello del 29 maggio 1949 fu però il suo ultimo viaggio. Catturato il 3 giugno dalle autorità franchiste nei pressi di Gironella, si trovò suo malgrado ad essere per una volta trasportato, ma verso una caserma, quella di Lerida. Caserma che però Francisco non vedrà mai. I franchisti lo avrebbero torturato, cercando di estorcergli informazioni sui compagni della resistenza, e Francisco Denis Diez, Catalá, l’anarco-sindacalista, il guerrigliero, la guida dei Pirenei, preferì ingerire una capsula di cianuro, morendo per la resistenza antifranchista quello stesso 3 giugno 1949.
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La nostra seconda maglietta del 2024 celebra i moti di Stonewall, ovvero la sollevazione della comunità LGBTQ+ contro la violenza e le discriminazioni delle istituzioni di New York. Per accompagnare questa data abbiamo scelto una frase di Marsha P. Johnson, che insieme a Sylvia Rivera e Stormé DeLarverie ha dato inizio alla rivolta: "You never completely have your rights, until you all have your rights", traducibile con "Non avrete mai tutti i vostri diritti, se non avranno tutti i vostri diritti.” Questa frase ha un significato importante, perché ci ricorda come sia giusto unire le lotte e rivendicare tutti i diritti per tutti gli individui oppressi per classe sociale, per genere, per “razza”, per identità, orientamento sessuale e via dicendo. Indossare questa maglia significa, quindi, portare avanti questo messaggio. La trovate qui: https://bit.ly/454tvXL
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Lascia stare i nostri morti, vigliacco. Sì tu, generale, sei un vigliacco, perché prima corteggi con le tue provocazioni la parte più schifosa di questo paese, e poi fingi di non sapere di cosa sta parlando. Il ragazzo nella foto, invece, quello col cartello “Aveva tentato con le armi di colpire la Decima” è un eroe. Si chiamava Ferruccio Nazionale, era ragazzo di ventidue anni, un operaio, un partigiano della 76ª Brigata Garibaldi. Il 29 luglio 1944 Ferruccio cercò di uccidere don Augusto Bianco, cappellano militare della X MAS e criminale di guerra, noto per intimorire le famiglie dei partigiani e per spingere le persone alle delazione tramite minacce o altri mezzi. Ferruccio fu preso prima di poter scagliare la bomba che aveva in mano. Torturato e mutilato (secondo alcuni resoconti gli tagliarono la lingua), Ferruccio fu ucciso e poi impiccato con i piedi legati dal filo di ferro dai militi della X MAS i quali, cantando giovinezza, costrinsero i passanti a guardare. Chi inneggia alla X MAS inneggia a questi servi dei nazisti, vigliacchi capaci soltanto di fare la guerra dietro i pantaloni delle SS e della Wehrmacht. Generale ci fai vomitare, ma più schifo ci fanno le istituzioni di questo paese le quali, nate dal sacrificio di persone come Ferruccio Nazionale, hanno riempito le caserme prima di criminali di guerra mai pentiti e poi di omuncoli come te, che ogni giorno, protetti dalla propria divisa, infangano la memoria di uomini e donne che hanno versato il sangue per un ideale. Ideale, qualcosa che quelli della tua risma non sanno nemmeno cosa sia. Se questo paese avesse un pizzico di memoria, in ogni caserma, in ogni scuola e in ogni ufficio ci sarebbero immagini di persone come Ferruccio, di fronte a cui tutti devono abbassare la testa. E allora te lo ripetiamo, lascia stare i nostri morti perché noi non smetteremo mai di difenderli, costi quello che costi. Cronache Ribelli
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Serena Mollicone aveva appena 18 anni quando, il primo giugno del 2001, scomparve ad Arce. Venne ritrovata alcuni giorni dopo incappucciata e senza vita, mani e piedi legati, in un boschetto di Anitrella. I primi sospetti furono indirizzati verso Guglielmo, il padre di Serena, morto quattro anni fa: fu ingiustamente calunniato e persino fermato durante i funerali della ragazza. Poi per l’omicidio e per l’occultamento di cadavere nel 2003 fu arrestato Carmine Belli, carrozziere di Arce, che prima di essere prosciolto da ogni accusa passò un anno e mezzo in carcere. Cinque anni dopo le indagini furono riaperte anche grazie alla mobilitazione della famiglia di Serena e in quell’occasione, prima di essere sentito dai magistrati, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Secondo la procura della Repubblica l’estremo gesto fu la conseguenza delle pressioni subite dai colleghi, e nello specifico dall’allora comandante della Caserma di Arce, Franco Mottola, padre di Marco. Quest’ultimo avrebbe discusso all’interno della caserma con Serena il giorno della sua scomparsa, e poi l’avrebbe aggredita in un alloggio in disuso, facendole battere la testa e perdere conoscenza. La ragazza sarebbe poi stata portata nel boschetto e qui soffocata. Da lì in poi iniziarono i depistaggi. Forse Serena voleva denunciare dei traffici di droga locali. Il 15 luglio 2022 i giudici della Corte di Assise di Cassino assolsero Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Annamaria dall’accusa di omicidio "per non aver commesso il fatto". Furono assolti ”perché il fatto non sussiste” Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano, che erano stati accusati rispettivamente di favoreggiamento personale in omicidio volontario e concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di Santino Tuzi. Attualmente è in corso il processo d’appello che vede gli stessi imputati del primo grado. Come già detto in passato solo quando cambierà la società cambieranno gli esiti di certi processi. Quando avremo giustizia sociale ci sarà anche giustizia nelle aule di tribunale: allora anche Serena troverà la pace che merita.
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La famiglia di Viola era poverissima. Il padre aveva perso una mano e la madre si arrangiava in lavoretti saltuari. Dopo aver cambiato spesso residenza si stabilirono nel Tennessee. Poveri erano e poveri restavano, ma in quello Stato americano vennero a contatto con una realtà diversa: quella di altre persone, povere come loro ma che non avevano diritto ad alcuna forma di solidarietà. Siamo nel secondo dopoguerra e la comunità afroamericana vive in condizioni miserabili. Alle condizioni economiche precarie si affiancano violenze continue a base di pestaggi, stupri e linciaggi. Viola capì che erano poveri come lei. La sua lotta per una vita migliore era la stessa dei neri per l'emancipazione sociale prima che economica. Quando Martin Luther King disse che tutti gli americani avrebbero dovuto battersi per i diritti degli afroamericani, non ci pensò un attimo, nonostante fosse sposata e con 5 figli. Suo marito, un italoamericano di origini calabresi, non era contento: lui preferiva starsene da parte, tranquillo. Ma non si oppose. E Viola partì. Arrivò a Selma, dove si stava preparando la famosa marcia Selma - Montgomery del 1965: aiutò prima nell'organizzazione dell'evento e poi si offrì di riaccompagnare i partecipanti da una città all'altra dopo la marcia del 25 marzo 1965. Insieme ad un attivista afroamericano, Leroy Moton, si fermarono ad una stazione di servizio. Fu qui che iniziarono gli insulti, feroci, rivolti a lei ed al ragazzo. Anzi, sicuramente più a Viola che a Leroy. "La sola cosa che odiano più dei neri sono i bianchi che li aiutano", dirà decenni dopo una delle sue figlie, Lilleboe. Una donna vista in compagnia di un nero era considerata la peggiore aberrazione possibile negli Stati del Sud. I due ripartirono, pensando che fosse finita lì. Ma, ad un tratto, mentre erano in coda ad un semaforo, vennero affiancati da una macchina con a bordo 3 membri del Ku Klux Klan ed un informatore della polizia. Partirono diversi colpi, due dei quali colpirono Viola alla testa, uccidendola sul colpo. Ma il razzismo non si piegò neanche di fronte alla morte di una madre. "Ecco la figlia dell'amante dei neri". Erano lì, allineati, ad urlare gli insulti alla famiglia Liuzzo. 5 figli, la più grande adolescente, poco prima del funerale. Pochi giorni dopo trovarono una croce bruciata nel giardino. Ma il peggio lo riservarono le istituzioni e le forze di polizia, nello specifico l'FBI che fece passare Viola per una poco di buono, una tossicodipendente, un'adultera. Tutte accuse che verranno cancellate col tempo. Ciò che rimase, di Viola, fu la sua eredità spirituale, raccolta dai figli e dal movimento tutto. "Quando crescerete", dirà Lilleboe al suo fratello più piccolo, Tony "capirai quello che ha fatto tua madre".
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Nel caos successivo all’8 settembre 1943 una dura sorte toccò ai militari italiani di stanza in Grecia e nelle isole. Alcuni si diedero alla macchia, in alcuni casi tornando a casa e contribuendo a formare le forze partigiane. Molti furono massacrati, come nel caso di Cefalonia. Una gran parte venne catturata e inviata in Germania, internati come i prigionieri delle nazioni che combattevano l’Asse. Per gli altri internati gli italiani erano e restavano dei fascisti, e questa considerazione determinò molte delle dinamiche tra gli stessi e gli altri prigionieri. Ma il trattamento peggiore era ovviamente quello che era loro riservato da parte delle SS e delle guardie dei campi. L’odio per gli ex alleati si trasformò in torture, maltrattamenti e anche uccisioni; il numero totale degli internati militari italiani pare fosse intorno alle 600mila unità. La testimonianza che riportiamo adesso viene dal Fondo Giulio Baraldini. “Il compagno ingegnere portava gli occhiali molto spessi, risultando assai miope, e sapeva che gli sarebbero stati indispensabili anche per la sopravvivenza. Accadde che un giorno stava più male del solito e fece capire a un Kapò che non era in grado di rendere sottoponendosi ad un lavoro duro, e chiese di farne un altro meno gravoso. Il Kapo gli sorrise in faccia e gli affibbiò due schiaffi che gli fecero cadere gli occhiali. Quando si chinò per raccoglierli dovette subire la sua viltà con dei calci, restando a terra. Non essendo in grado di riprendersi, il Kapò ordinò a due di noi di rialzarlo, e colpì di proposito, con il bastone, gli occhiali rompendone una lente, e deformò una montatura. I compagni raccolsero ugualmente ciò che era rimasto e li dettero al poveretto che piangeva dal dolore e dal dispiacere. Fu mandato di nuovo sul lavoro con il compito di versare l’acqua durante l’impasto delle gettate di cemento che facevamo. Per qualche giorno ebbe quell’incarico adoperando gli occhiali così menomati. [...]. In questa condizione aberrante, un altro Kapò lo maltrattò, facendolo cadere a terra, e questa vorsa perse gli occhiali che furono ancora calpestati con disprezzo. Questo gesto gli dette il colpo di grazia. Non ci vedeva affatto, perciò era sballottato nel buio della cecità. Passò una guardia SS per il solito controllo e, vedendolo fermo a terra, gli diede dei calci [...]. L’ingegnere non si mosse più”. Cronache Ribelli Da poco è uscito il nostro libro "Mio nonno diceva sempre di no. La storia di un internato militare che rifiutò la R.S.I.". Disponibile qui: https://bit.ly/4bj5CxE
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Per quanto la violenza fisica provochi orrore, non bisogna sottovalutare l'impatto della violenza culturale spesso esercitata da un popolo verso un altro. La sottomissione che dev'essere non solo di tipo politico-militare ed economico ma anche - appunto - culturale. La distruzione dell'identità passa attraverso l'annientamento di una lingua, di una religione, di uno stile di vita. Proprio per questo furono create, in Canada, le "Residential Schools", ovvero un sistema di istruzione creato per rieducare i figli degli indigeni canadesi ad uno stile di vita occidentale. Rieducare è, in effetti, un termine molto morbido. I bambini venivano sottratti alle loro famiglie in maniera coatta. Venivano praticamente rapiti. I numeri sono impressionanti: pare che il 30% dei nativi canadesi sia stato educato in una Residential School, ovvero circa 150.000 bambini. E di questi, 6.000 sono morti mentre frequentavano una di queste scuole. Le violenze, sia fisiche che sessuali, erano all'ordine del giorno, con una disciplina ferrea che non aveva pari. Per chi gestiva gli istituti, il fine era quasi nobile: salvare le anime dei poveri fanciulli che, altrimenti, sarebbero stati dannati in eterno in quanto selvaggi. Molte delle scuole, infatti, erano gestite dalla Chiesa. Le condizioni igieniche erano spesso precarie e, ancora peggio, l'assistenza sanitaria era praticamente inesistente. Ed è semplicemente agghiacciante pensare che, se le Residential Schools vennero create nella seconda metà dell'Ottocento, l'ultima chiuse soltanto nel 1996. Nel corso degli ultimi decenni le scuole vennero private di molti dei fondi statali. Per colmare i deficit di personale, molte scuole iniziarono a mettere i loro studenti ai lavori forzati. Negli ultimi anni il governo canadese e la Chiesa hanno spesso chiesto scusa per i fatti commessi all'interno delle Residential Schools. Ma era ormai troppo tardi per rimediare alla cancellazione di intere lingue, culture e popoli.
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“La costituzione voi lo sapete, vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista, eppure il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della RSI ordiva fucilazioni e ordiva spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale. A Milano….” Mentre il sindacalista Franco Castrezzati sta parlando, il 28 maggio 1974, sul palco di piazza della Loggia, si sente un botto enorme. A Brescia è scoppiata una bomba: il suo obiettivo sono dei manifestanti antifascisti. Brescia nel 1974 vive un clima particolarmente difficile. Sono all’ordine del giorno le aggressioni nei confronti di militanti di partiti e associazioni democratici e di sinistra, le sedi dei sindacati sono oggetto di attacchi dinamitardi, intellettuali e personaggi di cultura ricevono minacce dirette, tutto mentre le concentrazioni di potere economico locale si rifiutano di accettare le più elementari rivendicazioni dei lavoratori. Ad aumentare in maniera esponenziale la tensione in città sono una serie di atti eversivi di natura dinamitarda e di chiara matrice neofascista. Il più grave è quello che vede coinvolto Silvio Ferrari, giovanissimo esponente di estrema destra, che muore dilaniato dallo scoppio della bomba che stava aspettando di piazzare. Di fronte a quest’ultimo atto Il Comitato Unitario Permanente Antifascista decide di indire quella manifestazione che si concluderà a Piazza della Loggia. 28 maggio, ore dieci. Nonostante il freddo e la pioggia, incredibili per quei giorni di maggio, la piazza è piena di gente. Ci sono le bandiere dei partiti, i soggetti extraparlamentari, le sigle sindacali. Ma soprattutto ci sono cittadini comuni di diversi orientamenti politici e culturali, tutti uniti nella volontà di dire basta alle violenze fasciste. E quella bomba che esplode alle 10,12 uccidendo otto persone, di cui due dopo una lunga e dolorosissima agonia, è diretta proprio contro quella gente. Contro quella gente di Brescia che vuole essere un argine al fascismo che sta tornando, che porta in piazza sentimenti di rifiuto totale dei nuovi e dei vecchi fantasmi. Franco Castrezzati in seguito dirà. “C’è chi dimostra stupore per i fatti di piazza della Loggia. Ma di questo io non mi rendo conto. Io capisco il raccapriccio, il dolore, la rabbia. Non capisco lo stupore, perché il fascismo è violenza, il fascismo si è imposto, è nato con la violenza , è vissuto nella violenza, è tramontato nella violenza e ora cerca di risorgere nella violenza.” Parole limpide che tuttavia a distanza di quarant’anni, di altre bombe, aggressioni, e omicidi di chiara matrice ben pochi sarebbero disposti a pronunciare. Cronache Ribelli
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Dona il tuo 5x1000 a Cronache Ribelli. Siamo una realtà divulgativa ed editoriale indipendente che dal 2016 ha deciso di raccontare le storie e le lotte delle classi subalterne, dei gruppi emarginati, delle soggettività oppresse. Da allora il nostro lavoro si regge su tre pilastri: ▪️ non abbiamo mai ricevuto fondi pubblici o erogazioni liberali da enti privati ma finanziamo questo progetto solo attraverso la vendita dei nostri materiali; ▪️ abbiamo scelto di rifiutare le logiche della distribuzione editoriale che stritola gli editori minori e i piccoli librai, sfrutta i lavoratori del settore e ha un serio impatto ambientale: pur non vendendo nei grandi store online e nelle catene abbiamo fatto circolare oltre 30.000 libri. ▪️ siamo una realtà orizzontale e priva di gerarchie: restiamo un collettivo nel quale le decisioni vengono prese sempre collettivamente e tutti coloro con cui collaboriamo lavorano in piena autonomia. Codice fiscale 03643460540
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Ogni anno la premier Meloni in questa giornata ricorda la morte di Giorgio Almirante, celebrandolo come eroe della patria, uomo retto e suo riferimento politico. Almirante in realtà è stato un razzista convinto, un criminale di guerra e un istigatore di stragi e rappresaglie. Nella primavera del 1944 firmò il "manifesto della morte" come capo di gabinetto del ministro della Cultura Popolare dell'RSI. Il manifesto annunciava la fucilazione per "sbandati ed appartenenti a bande" che non si fossero consegnati ai "posti militari e di polizia italiani e tedeschi". Le zone della Toscana in cui fu affisso il bando divennero teatro di stragi e rappresaglie, in particolare a Niccioleta, dopo la diffusione di quel bando, furono assassinati dai nazifascisti 83 minatori accusati di collaborazione con i “banditi partigiani”. Il manifesto della morte venne ritrovato nell'estate del 1971 e pubblicato il 27 giugno dai quotidiani "l'Unità" e "il Manifesto". Giorgio Almirante li denunciò per diffamazione. Nel corso del procedimento furono rinvenute negli Archivi di Stato e prodotte in giudizio inequivocabili prove documentali attestanti la veridicità del manifesto di fucilazione. La Cassazione nel 1978 decretò la vittoria totale de L’Unità, che rifiutò il risarcimento economico. La stampa comunista aveva dimostrato che Almirante era un criminale di guerra. Questa è solo una delle tante criminali vicende legate alla storia di Giorgio Almirante. Chi lo ritiene il proprio riferimento politico si qualifica da solo/a.
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“Il nostro glorioso ideale è andato in rovina e con esso tutto ciò che di bello e meraviglioso ho conosciuto nella mia vita. Il mondo che verrà dopo il Führer e il nazionalsocialismo non è più degno di essere vissuto e quindi porterò i bambini con me, perché sono troppo buoni per la vita che li attenderebbe, e un Dio misericordioso mi capirà quando darò loro la salvezza”. Con queste parole Magda Goebbels comunicava al figlio Harald, tenente della Luftwaffe fatto prigioniero dagli Alleati sul fronte italiano, la decisione di uccidersi e di assassinare tutti i figli avuti dal suo matrimonio con il ministro della propaganda del Reich. I due si erano conosciuti nel 1930, dopo che la donna aveva divorziato da Günther Quandt, un ricco industriale tedesco, padre di Harald. Se tra Joseph Goebbels e Magda Ritschel fu attrazione autentica, matrimonio d’interesse, o solo una copertura per una presunta relazione tra la donna e Hitler è difficile da stabilire. Certo è che più volte il Führer intervenne nelle questioni private della coppia, sostanzialmente per redarguire i comportamenti libertini di Joseph, noto per avere uno stuolo di amanti. Al crepuscolo del nazionalsocialismo, quando ormai i russi erano a Berlino, Hitler accolse nel bunker della Cancelleria l’intera famiglia Goebbels. I sei bambini vissero gli ultimi giorni nel bunker allietando “lo zio Adolf” con i propri canti, giocando tra di loro e con Blondi, il pastore tedesco del Führer. Il 1° maggio 1945, quando ormai Hitler si era già suicidato insieme ad Eva Braun, i sei piccoli vennero informati che stavano per essere trasferiti. Vennero narcotizzati con della morfina e poi la madre, probabilmente con l’aiuto del dottor Ludwig Stumpfegger, spezzò nelle loro bocche delle capsule di cianuro che li uccise sul colpo. Altri resoconti parlano della presenza di un’infermiera e di un altro medico. Impossibile stabilire con certezza assoluta chi abbia effettivamente ucciso fisicamente i sei bambini, certo è che la volontà della loro morte ricade totalmente sui genitori. Sia Albert Speer, ministro degli armamenti e noto “architetto del regime”, che Erich Kempka, la guardia del corpo personale di Hitler, si erano offerti di trarre in salvo i piccoli dalla sacca di Berlino. Ma la risposta dei coniugi Goebbels fu sempre negativa. Dopo l’omicidio dei figli i due si uccisero fuori dal bunker. La benzina non bastò a carbonizzare i corpi, rinvenuti pochi giorni dopo dai sovietici. Helga aveva 12 anni, l’autopsia rivelò che aveva lottato per non ingerire la morfina. Hilde 11 anni, Helmut 9, Holdine 8, Heide 4 anni. Hedwing, infine, compiva sette anni il giorno della sua morte. I sei omicidi resteranno nella storia come uno degli atti di fanatismo più folli di ogni tempo.
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Ultimo giorno per festeggiare con noi gli 8 anni dalla nascita di Cronache Ribelli. L'offerta con i 5 libri al prezzo di 3 sarà infatti disponibile per altre 24 ore. Grazie come sempre alle tante persone che hanno approfittato dell'offerta per recuperare alcuni dei nostri testi, da Cronache Ribelli a Partigiani contro passando per La Storia contro il razzismo. Trovate l'offerta qui: https://cronacheribelli.it/products/cinque-libri-al-prezzo-di-tre-offerta-per-gli-otto-anni-di-cronache-ribelli
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Il 25 maggio 2020 George Floyd, 46 anni, nero e padre di due figli, è stato ucciso dalla polizia di Minneapolis. Quel giorno Floyd venne fermato da quattro agenti di polizia, chiamati da un negoziante che lo accusa di un presunto utilizzo di una banconota falsa. L’afroamericano fu bloccato a terra e uno degli agenti si inginocchiò sul suo collo per otto minuti, fino a togliergli la vita. L’omicida ha ignorato le suppliche di Floyd che urlava “non riesco a respirare”. Mentre i suoi colleghi assistevano alla scena senza intervenire, l’omicida continuava a premere sul collo dell’afroamericano anche quando questi aveva perso conoscenza e perfino, per oltre un minuto, dopo l’arrivo dei paramedici. Il video dell’accaduto è diventato in poco tempo virale provocando la rabbia della comunità nera, guidata dal movimento Black Lives Matter. Nei due mesi successivi all’omicidio si sono svolte oltre 4.700 proteste in circa 2.500 città degli Stati Uniti. Nonostante la violenta repressione delle autorità e la reazione armata dei suprematisti bianchi, milioni di persone sono scese in piazza. Derek Chauvin, l’omicida di Floyd, ha patteggiato una pena tra i 20 e i 25 anni di carcere, mentre i tre colleghi sono stati condannati per non essere intervenuti e per non aver tutelato i diritti civili della vittima, a giugno sarà resa nota l’entità della condanna.
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Domenica siamo in partenza, destinazione Calabria. Questi gli appuntamenti: 👉 domenica 26: Reggio Calabria, CSOA Cartella, ore 18.30 presentazione di Partigiani Contro e Ventennio di Sangue 👉 lunedì 27: San Ferinando (RC), Giardino della memoria, ore 18: presentazione del progetto editoriale e delle ultime pubblicazioni
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Margaret Thatcher ottenne, negli anni ‘80, importanti vittorie contro i sindacati - in particolar modo quelli del settore minerario - in nome del diritto al profitto per pochi a scapito della dignità di molti. Altri diritti, però, erano sicuramente secondari agli occhi del primo ministro inglese: primi tra tutti, quelli degli omosessuali. La sezione 28 del Local Government Act del 1988, infatti, prevedeva la proibizione della “promozione dell’omosessualità” nelle scuole e nelle amministrazioni britanniche. “Ragazzini ai quali si dovrebbe insegnare il rispetto per i valori della morale tradizionale vengono invece indottrinati, viene loro insegnato che hanno il diritto inalienabile di essere gay”, dirà la Thatcher. Un provvedimento che impediva, di conseguenza, la diffusione di libri o materiale con contenuti, anche lontanamente, vicini al mondo omosessuale, e proibiva di fatto alle istituzioni locali di finanziare qualsiasi iniziativa delle associazioni LGBT. Una legge doppiamente infame se si pensa che, proprio in quel periodo, l’epidemia di AIDS/HIV stava toccando livelli inquietanti anche e soprattutto a causa della scarsa informazione sul tema. La protesta contro la Thatcher partì dal nord dell’Inghilterra, precisamente da Manchester, dove la comunità LGBT era sempre stata molto attiva. “Avevamo un ufficio segreto nell’attico del comune dove più di 100 persone si riunivano ogni settimana. Organizzavamo una protesta contro il governo nazionale dall’ufficio di un governo locale. In maniera totalmente illegale”, dirà Paul Fairweather, uno degli esponenti della comunità gay mancuniana. “Andammo nei club e nei bar omosessuali, dove chiedevamo ai proprietari di fermare la musica al fine di poter parlare. Qualcuno protestava, ma alla fine del discorso capivano la gravità della situazione. L’intera comunità era sotto attacco. I bar e club stessi erano a rischio, per non parlare della violenza da parte della polizia”. I controlli dei poliziotti inglesi infatti diventavano sempre più frequenti. Le violenze a danno di omosessuali aumentavano e le denunce erano praticamente inutili. In questo clima di tensione si organizzò. sempre a Manchester, una marcia di protesta contro la legge. E fu un successo clamoroso: più di 20 mila persone si recarono in città per supportare la lotta contro la sezione 28. La comunità LGBT non fu lasciata sola e diede una risposta forte al governo della Thatcher. Nonostante tutto, la sezione 28 rimase in vigore fino al 2001 in Scozia e al 2003 nel resto del Regno Unito. Alcuni anni dopo, nel 2009, il primo ministro David Cameron si scusò pubblicamente, a nome del partito conservatore, per la promulgazione della sezione 28. Trovate questa storia tra le carte del nostro gioco da tavolo "Il tempo della rivolta" disponibile qui : https://bit.ly/4ahG1oE
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Da oggi sul nostro shop trovate gli ultimi pezzi rimasti di “Cast the First Stone”, un gioco da tavola ispirato dal fenomeno delle rivolte globali, nel quale i giocatori si cimenteranno nei panni di chi difende l’ordine costituito e di chi vuole abbatterlo. Questo gioco, che riprende e attualizza l’idea dello storico gioco “Corteo”, è stato realizzato dal collettivo No Board Games, con cui abbiamo collaborato per la creazione della nostra prima timeline “Il tempo della Rivolta”. Trovate qui “Cast the First Stone”: https://bit.ly/4bMUCbQ
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Nell'estate del 1942 vennero organizzate diverse partite di calcio per tenere occupati i soldati e distrarre la popolazione. Nella città di Kiev vengono create squadre formate dai militari tedeschi, ungheresi e romeni, ucraini collaborazionisti e un paio di squadre locali, tra cui una chiamata Start, formata da ex calciatori della Dinamo Kiev e della Lokomotiv. La Start, capeggiata dal portiere Nikolai Trusevich, si impose rapidamente e facilmente su tutte le altre squadre, anche sulla Flakelf, composta da uomini della Luftwaffe e della Gestapo. Ed è qui che la storia inizia a mischiarsi con la leggenda: il 9 agosto si gioca la rivincita. Da una parte la Start, con una maglietta di stoffa rossa, come la bandiera dell’URSS, che sul campo sta realizzando una rivincita contro gli occupanti, dall’altra la Flakelf. Lo stadio è gremito. Da una parte la gente di Kiev, dall’altra i soldati della Wehrmacht, i collaborazionisti e le SS. La partita inizia e nel primo tempo la Start domina imponendosi per 3 a 1. Negli spogliatoi, secondo alcune fonti, l’arbitro, che apparteneva alle SS, dice che quella partita i giocatori sovietici la devono perdere. Altrimenti non riporteranno la pelle a casa. Effettivamente alla ripresa la Start sembra imballata, docile. E così prende subito due gol. Ma a metà del secondo tempo tutto cambia di nuovo. Gli ucraini tornano all’attacco e il risultato finale sarà poi di 5 a 3 per la Start. Ecco, tutto quello che abbiamo scritto fino ad ora secondo altre fonti non è mai avvenuto. Sì, la partita c’è stata, ma il gioco era leale e amichevole. Fatto sta che nei mesi successivi molti giocatori della Start saranno uccisi dai tedeschi. Nikolaj Korotkikh viene torturato come spia dell’NKVD, mentre Trusevich, Klimenko e Kuzmenko sono ammazzati nel campo di concentramento di Syrets. Lavoravano in un panificio e i tedeschi li accusarono di aver cercato di avvelenarli. Alla fine della guerra solo tre giocatori della Start sopravvivono. Ma non parlano. Hanno paura che la polizia sovietica li consideri collaborazionisti del nemico per aver giocato quel torneo. Sarà Gundarev dopo la destalinizzazione a raccontare questa incredibile straordinaria storia.
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“Sola come un cane, un indirizzo, un medico... Forse quello giusto dopo tanti che non avevano saputo che farmi un paternalistico discorso sulle mie responsabilità, sulle mie colpe, per nascondere in realtà la paura di compromettersi con una minorenne. Questa volta alla solita domanda risposi: 21 anni e quello allora mi rispose, quasi infastidito, che quelle cose lui non le faceva ma conosceva una tale. Presi appuntamento con la ‘tale’ per 20.000 lire (…) Da uno sportello della credenza tirò fuori l’attrezzatura: ferro da calza, sonda, speculo. Non vidi altro perché non volevo vedere… ‘Non sentirai molto male, dato che sei appena al secondo mese’ diceva. Invece io ero quasi di quattro mesi, ma non glielo dissi per paura che si rifiutasse di intervenire. Cominciarono le doglie il mattino dopo alle sei, alle nove non potevo più alzarmi per andare in bagno a cambiarmi perché lasciavo la scia di sangue per terra e mia madre avrebbe potuto scoprire tutto. Dolore, sangue, feto, placenta, terrore. Finalmente alla sera finì tutto.” Questa una delle testimonianze rilasciate nei 10 anni precedenti il varo della legge 194. Anni in cui per la prima volta nel nostro Paese un argomento tabù come quello dell’aborto divenne terreno di dibattito e scontro. Prima di allora, per la stragrande maggioranza delle donne era praticamente impossibile da raccontare. L’Unesco all’inizio degli anni '70 stimava in una cifra intorno al milione e mezzo di aborti in Italia. Tutti praticati illegalmente da medici, mammane o addirittura nell’ambito familiare. Le donne che abortivano in queste condizioni, oltre a rischiare procedimenti penali a loro carico, potevano incorrere in gravi conseguenze per la salute, perfino morire. Chiaramente le donne delle classi popolari e quelle la cui condizione sociale era più marginale rischiavano di più sul piano della salute. Per tutte in ogni caso c’era uno stigma sociale fortissimo e un grande trauma psicologico di cui nessuno si sarebbe mai interessato. L’Italia negli anni '70 era il fanalino di coda dei paesi occidentali. Un Paese profondamente patriarcale in cui le donne erano oggetto di stereotipi e pregiudizi e nel quale era assente ogni educazione sessuale. Fu prima l’intervento della Corte costituzionale e poi la promulgazione della legge 194 del 1978 a riconoscere alle donne il diritto ad interrompere nelle strutture pubbliche la gravidanza indesiderata. Una legge sicuramente perfezionabile ma che ha cambiato la vita di milioni di donne, facendole uscire da una condizione di illegalità e pericolo. Per questo dobbiamo batterci per non tornare in un’epoca da cui siamo tanto faticosamente e lentamente usciti. Cronache Ribelli Sul tema del rapporto tra stampa e aborto abbiamo pubblicato "Dall'autodeterminazione della donna al criptoaborto", che trovate qui: https://bit.ly/44VyAkP
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La proposta di Salvini di reintrodurre la leva obbligatoria è una boiata, il cui unico scopo è quello di indirizzare ulteriori fondi alla più inutile mangiatoia di soldi pubblici di questo paese. L’unica utilità che ha avuto la leva in questo paese è stata quella di educare intere generazioni al servilismo, all’obbedienza cieca, all’aridità morale e ideale. In questa grande opera di trasmissione dell’autoritarismo di stato le Forze Armate hanno lasciato sul terreno i corpi di tantissimi giovani ragazzi. Se ad oggi è impossibile stabilire con certezza quanti giovani siano morti, si siano suicidati o addirittura siano stati uccisi nel corso della cosiddetta naja, sappiamo che essi sono nell’ordine delle migliaia. Negli anni ‘80, il PCI e DP presentarono diverse interrogazioni sul tema da cui si evince ad esempio che ci furono 227 morti nel 1982 (di cui 31 suicidi), 232 nel 1983 (21 suicidi), 344 nel 1984 (di cui 29 suicidi). In tali atti si parla di una cifra compresa tra gli 8.000 e i 12.000 morti dalla fine della guerra mondiale, e di almeno 50.000 invalidi. Morti causati da incidenti durante la guida di mezzi, da malattie non curate adeguatamente, dall’uso delle armi durante gli addestramenti o peggio in circostanze poco chiare per non dire criminali (si veda il caso di Emanuele Scieri, ucciso durante il servizio nella Folgore). Insomma, nel corso della leva la mortalità di una popolazione di giovanissimi saliva allo stesso livello della media nazionale, che chiaramente comprendeva anziani, malati cronici e morti sul lavoro. Negli stessi anni la stampa era piena di lettere denuncia dei soldati di leva che dichiaravano di vivere in ambienti malsani, sudici, all’interno dei quali gli episodi di violenza e terrorismo psicologico verso i sottoposti erano all’ordine del giorno. Questa grande “impresa di stato” aveva un costo militare enorme, era completamente inutile sul piano della preparazione militare - tanto più lo sarebbe oggi - e aveva come unico risultato quello di foraggiare una pletora di burocrati militari, i Vannacci di turno, che la guerra, quella vera, l’hanno vista solo nei film. Questo, insomma, è un passato che non vogliamo più rivivere.
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Paolo Secchiari, il padre, nacque a Gragnana, frazione di Carrara, nel 1865. Fin da giovanissimo si avvicinò alle idee anarchiche che, in quell’area della Lunigiana, si diffusero rapidamente tra i lavoratori del marmo. Lui, umile pastore, trasmise ai figli questi ideali e partecipò attivamente ai movimenti di lotta contro il governo Crispi che infiammarono la regione alla fine dell’Ottocento, venendo arrestato insieme ai fratelli. Da allora in poi Paolo sarà tenuto sotto osservazione dalle pubbliche autorità, ma gli anni peggiori inizieranno con la comparsa del fascismo sulla scena politica. Nel 1921 il circolo anarchico di Gragnana viene attaccato dai fascisti che picchiano numerose persone. Secchiari non si piega e così iniziano a perseguitarlo. Gli disperdono il gregge, gli gettano il latte e distruggono il formaggio. Poi il 6 agosto 1925 durante l’ennesima aggressione, i fascisti percuotono selvaggiamente anche sua moglie Giselda, che non si riprenderà mai dalle ferite riportate e morirà. Anche due dei suoi figli, Santino e Ceccardi, vennero uccisi in quegli anni: dopo l’ennesima violenza subita dai genitori, erano andati a vendicarli e avevano aggredito a coltellate uno dei fascisti che aveva picchiato la madre. Intercettati in due momenti dai carabinieri, saranno uccisi in scontri a fuoco. Dante, altro fratello, sarà invece incarcerato per diversi anni. Anche Silvia, loro sorella, subirà le conseguenze della sua fiera opposizione al fascismo. Malmenata ripetutamente dagli squadristi, rimase infine paralitica. Ma nonostante la disabilità non si piegò mai e continuò a manifestare i propri ideali, diventando un simbolo vivente di lotta. L’ultimo dei figli di Paolo Secchiari, Arturo, dopo l’Armistizio entrò nella Resistenza, all’interno della formazione Elio operante nella zona di Carrara e partecipò alla liberazione della città. Insieme a Dante, al padre e a Silvia sopravvisse alla guerra e al regime. Quest’ultima, seppur di umili origini e di basso grado di scolarizzazione, scriverà una toccante poesia per celebrare la fine del Ventennio, di cui qui riportiamo una parte. "Credevano che il fascio fosse in eternità E invece è un passaggio ch’è venuto e se ne va Non ci sarà una testa che vi perdonerà Le tante malefatte fino all’eternità."
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Era giovanissimo, Clément. Aveva 19 anni ed era originario di Brést, importante città della Bretagna occidentale. Un porto attivissimo che i numerosi lavoratori portuali hanno trasformato in una roccaforte dei movimenti e delle lotte. E dell’antifascismo. Quell’antifascismo che Clément si porterà dietro quando andrà a studiare a Parigi. Era anche un ragazzo dalla corporatura abbastanza minuta, sia di costituzione sia perché aveva affrontato - guarendo - una brutta leucemia, che lo aveva debilitato nel fisico ma non certo nella mente. Quel 5 giugno del 2013 Clément era con alcuni compagni in un negozio di abiti usati quando si imbatté improvvisamente in alcuni coetanei affiliati ai Jeune nationaliste revolutionnaire, un gruppo di estrema destra facente parte della grande galassia della destra eversiva francese, la quale strizza volentieri l’occhio al Front National. Clément e i suoi amici li riconoscono, partono le provocazioni e gli insulti ma alla fine i due gruppi si separano. Escono per primi gli antifascisti, che iniziano a dirigersi verso la metropolitana. Un addetto alla sicurezza del negozio, quando stanno per uscire gli altri, indica loro di andare in direzione opposta per non avere problemi. Loro invece seguono Clément e gli altri perché, come diranno in seguito, vogliono “evitare di farsi prendere alle spalle”. Quello che accadde negli istanti successivi venne dibattuto a lungo. Secondo i JNR furono gli antifascisti a tornare indietro per affrontare i rivali, i quali ribadiscono come la loro intenzione fosse di andare a prendere la metro e tornare a casa. Fatto sta che qualcuno raggiunse Clément e lo insultò. In brevi istanti partirono dei colpi. Clément rimase a terra: finirà in coma e morirà il giorno successivo. Secondo molti i colpi vennero sferrati utilizzando un tirapugni, circostanza confermata e smentita da diverse testimonianze, ma di cui uno dei responsabili si vanta via SMS, giustificandosi sulla base dell’“euforia” del momento. I tre responsabili della morte di Clément sono Esteban Morillo, di origine andalusa, Samuel Dufour et Alexandre Eyraud, tutti sui 20 anni. Nella loro vita privata, l’affiliazione all’estrema destra e un fascino indiscusso per Hitler e per la Germania nazista. E la negazione di questa vicinanza alle idee naziste al momento del processo, che terminerà con la condanna a 11 e 7 anni per Morillo e Dufour e l’assoluzione per Eyraud. In questi anni tanto, troppo si è detto sulla sorte di Clément Méric. Nella sua storia vi è però una chiara certezza: la sua morte fu la conseguenza dei colpi ricevuti il 5 giugno 2013 da 3 ragazzi appartenenti a un gruppo di estrema destra francese. La sua morte, soprattutto, fu la conseguenza del suo antifascismo.
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Se siete a Roma, questa sera non prendete impegni! Alle 20.30 interverremo con una nostra presentazione sulla Resistenza nell'evento Ugo e Noi, in memoria di Ugo Forno. Alle 22 presenteremo inoltre il talk "Letteraturap" con Murubutu, rapper e professore di storia e filosofia.
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Il 29 maggio del 1949 un gruppo di anarchici spagnoli, resistenti antifranchisti, varcano il confine dei Pirenei, entrando in Spagna clandestinamente dalla Francia. A guidarli, come decine, forse centinaia di altre volte, c’è Francisco Denis Diez. Francisco è anche lui in esilio in Francia, dalla fine della guerra civile e dall’inizio della dittatura di Franco. Ma la lotta non finisce con l’esilio. Catalá, questo il soprannome di Francisco, che ha vissuto per anni a Barcellona, è un anarchico e un sindacalista, membro del sindacato dei trasporti, e allo scoppio della guerra civile ha deciso di imbracciare le armi e combattere, diventando un importante commissario nella Colonna Durruti. Con la vittoria dei franchisti, Francisco fu tra i tanti costretti all’esilio, ma fu anche tra i tanti che non vollero smettere di lottare. E quale migliore contributo alla lotta, per un anarco-sindacalista con alle spalle una vita nel sindacato dei trasporti, se non aprire varchi attraverso i Pirenei, attraverso cui far passare decine di compagni della resistenza? In dieci anni Francisco fece entrare in Spagna decine di anarchici antifranchisti, tra cui anche “El Quico” Sabaté Llopart, alimentando così la resistenza al regime. Quello del 29 maggio 1949 fu però il suo ultimo viaggio. Catturato il 3 giugno dalle autorità franchiste nei pressi di Gironella, si trovò suo malgrado ad essere per una volta trasportato, ma verso una caserma, quella di Lerida. Caserma che però Francisco non vedrà mai. I franchisti lo avrebbero torturato, cercando di estorcergli informazioni sui compagni della resistenza, e Francisco Denis Diez, Catalá, l’anarco-sindacalista, il guerrigliero, la guida dei Pirenei, preferì ingerire una capsula di cianuro, morendo per la resistenza antifranchista quello stesso 3 giugno 1949.
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La nostra seconda maglietta del 2024 celebra i moti di Stonewall, ovvero la sollevazione della comunità LGBTQ+ contro la violenza e le discriminazioni delle istituzioni di New York. Per accompagnare questa data abbiamo scelto una frase di Marsha P. Johnson, che insieme a Sylvia Rivera e Stormé DeLarverie ha dato inizio alla rivolta: "You never completely have your rights, until you all have your rights", traducibile con "Non avrete mai tutti i vostri diritti, se non avranno tutti i vostri diritti.” Questa frase ha un significato importante, perché ci ricorda come sia giusto unire le lotte e rivendicare tutti i diritti per tutti gli individui oppressi per classe sociale, per genere, per “razza”, per identità, orientamento sessuale e via dicendo. Indossare questa maglia significa, quindi, portare avanti questo messaggio. La trovate qui: https://bit.ly/454tvXL
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Maglietta 28 giugno - Moti di Stonewall - You never completely have yo

Indossiamo frammenti di storia affinché possano camminare anche nel presente gli ideali e le pratiche che hanno cambiato il mondo.  Questo è l’obiettivo delle nostre capsule “stoffe ribelli”. La seconda maglietta è dedicata ai moti di Stonewall, punto di partenza delle lotte LGBTQ+, ricordati tramite una frase di Marsh

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Lascia stare i nostri morti, vigliacco. Sì tu, generale, sei un vigliacco, perché prima corteggi con le tue provocazioni la parte più schifosa di questo paese, e poi fingi di non sapere di cosa sta parlando. Il ragazzo nella foto, invece, quello col cartello “Aveva tentato con le armi di colpire la Decima” è un eroe. Si chiamava Ferruccio Nazionale, era ragazzo di ventidue anni, un operaio, un partigiano della 76ª Brigata Garibaldi. Il 29 luglio 1944 Ferruccio cercò di uccidere don Augusto Bianco, cappellano militare della X MAS e criminale di guerra, noto per intimorire le famiglie dei partigiani e per spingere le persone alle delazione tramite minacce o altri mezzi. Ferruccio fu preso prima di poter scagliare la bomba che aveva in mano. Torturato e mutilato (secondo alcuni resoconti gli tagliarono la lingua), Ferruccio fu ucciso e poi impiccato con i piedi legati dal filo di ferro dai militi della X MAS i quali, cantando giovinezza, costrinsero i passanti a guardare. Chi inneggia alla X MAS inneggia a questi servi dei nazisti, vigliacchi capaci soltanto di fare la guerra dietro i pantaloni delle SS e della Wehrmacht. Generale ci fai vomitare, ma più schifo ci fanno le istituzioni di questo paese le quali, nate dal sacrificio di persone come Ferruccio Nazionale, hanno riempito le caserme prima di criminali di guerra mai pentiti e poi di omuncoli come te, che ogni giorno, protetti dalla propria divisa, infangano la memoria di uomini e donne che hanno versato il sangue per un ideale. Ideale, qualcosa che quelli della tua risma non sanno nemmeno cosa sia. Se questo paese avesse un pizzico di memoria, in ogni caserma, in ogni scuola e in ogni ufficio ci sarebbero immagini di persone come Ferruccio, di fronte a cui tutti devono abbassare la testa. E allora te lo ripetiamo, lascia stare i nostri morti perché noi non smetteremo mai di difenderli, costi quello che costi. Cronache Ribelli
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