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LA MOSSA DEL CAVALLO
Non bisogna mai dimenticare la lezione di von Clausewitz, secondo cui
"la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi", perché il significato più profondo di questa affermazione è che la condotta della guerra è sempre eminentemente politica.
Stamattina, nel pubblicare la notizia che Israele aveva preannunciato l'attacco a Rafah - accompagnata stavolta dal lancio di volantini sulla città, che indicavano alla popolazione civile di lasciare la zona orientale e dirigersi verso l'area di Al-Mawasi - riflettevo sul fatto che fosse
"difficile dire se stia davvero per scattare l'ora X, o se siano mosse per fare pressione su Hamas (affinché accetti l'ultima proposta di negoziazione) e/o sugli USA (che sembrano aver sospeso l'invio di aiuti militari la scorsa settimana). Lo scopriremo probabilmente entro le prossime 48h."
Nel giro di poche ore, si sono succeduti una serie importante di fatti.
L'inizio di bombardamenti sull'area orientale di Rafah e dell'esodo dei civili.
Una telefonata tra Biden e Netanyahu, sembra molto
calda.
L'Egitto e l'Arabia Saudita ribadiscono la netta contrarietà, e Ryad chiede un intervento internazionale per scongiurare l'attacco.
Il Gabinetto di Guerra israeliano approva l'invasione.
Ismail Haniyeh, capo dell'Ufficio Politico di Hamas, comunica al Qatar ed all'Egitto che la Resistenza accetta la proposta formulata dai mediatori.
A questo punto, la palla torna nella metà campo israeliana.
Netanyahu deve fare i conti con una parte della sua maggioranza che reclama l'attacco (se non apertamente il completamento del genocidio), mentre una larga parte della cittadinanza chiede prioritariamente che si tratti per far tornare (almeno in parte) i prigionieri. È inoltre consapevole che la decisione di procedere con l'attacco comporta una serie di rischi e problemi. I rapporti con gli Stati Uniti si faranno più complicati. Le possibilità che l'attacco si trasformi in un massacro sono elevate, e questo porta con sé l'aumento esponenziale delle probabilità che la CPI emetta un mandato di cattura nei suoi confronti. Raggiungere lo scopo conclamato di annientare Hamas è impossibile, tanto che ieri ha colpito duramente la base di Kerem Shalom, dove si sta organizzando l'attacco a Rafah. C'è il rischio concreto che invece di liberare i prigionieri (cosa mai riuscita in sette mesi di combattimenti) la Resistenza ne catturi di nuovi.
Anche se apparentemente la Resistenza ha
ceduto alla pressione israeliana, in realtà la mossa di Hamas mette in difficoltà sia Netanyahu che Biden.
Il primo, perché se accetta la tregua (ma secondo il giornalista israeliano Moriah Doron,
"Hamas ha approvato una proposta egiziana che è inaccettabile per Israele") rischia di far cadere il suo governo, ma se non l'accetta si consegna definitivamente come un paria assassino dinanzi alla comunità internazionale (e dovrà fare i conti con le famiglie dei prigionieri, che già minacciano di
"incendiare il paese").
Il secondo perché ha sempre sostenuto che la colpa fosse di Hamas che non voleva concludere un accordo, ed ora si trova spiazzato, e ancora una volta i suoi tentativi di arrivare ad un accordo Ryad-Tel Aviv andranno a farsi friggere.
Come è stato sinora, la Resistenza che sembrava messa all'angolo ne esce con una mossa del cavallo, che spiazza gli avversari.
Adesso, però, forse sarebbe il caso che la comunità internazionale -
Russia e Cina per prime - facesse sentire davvero il suo peso, per evitare un nuovo massacro.
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