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Il caso Scafroglia

Vicende politiche di ordinaria italianità raccontate e analizzate da giornalisti, economisti e blogger. Il caso Scafroglia è membro del network @Qual_ITA 🇮🇹

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Allungata l'età pensionabile, l'occupazione che aumenta è quella precaria tra gli over 50. Finiti i bonus, il maggiore contributo all'occupazione è dato dalla riforma Fornero Istat. Con la fine degli sgravi del Jobs Act i contratti a tempo indeterminato crollano. Stabilizzato solo un precario su cinque. Cresce la disoccupazione a Sud. L’occupazione a termine riguarda più della metà degli occupati in Italia Scambiare gli «occupati» con i «posti di lavoro» è la regola utilizzata da alcuni governi. La tentazione di definire una persona che nella settimana della rilevazione statistica per l’occupazione ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito con qualcuno che possiede un contratto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato, ritorna ogni volta che l’Istat pubblica un rapporto. Si può lavorare, anche poche ore, e risultare «occupati», ma non per questo si possiede un «posto di lavoro». Inoltre, un «occupato» può anche svolgere più lavori contemporaneamente e con più contratti nel corso di un anno. La confusione mira a sovra-interpretare le statistiche mascherando continuamente le cause reali e la bassa qualità dell’occupazione e della disoccupazione che aumenta al Sud. La scena si è ripetuta lo scorso venerdì quando l’Istat ha pubblicato una lettura integrata sul mercato del lavoro nel primo trimestre 2017. L’occupazione cresce e riguarda gli over 50 precari, la tendenza è questa. Dai dati emerge un aumento degli occupati di 52 mila unità da gennaio a marzo 2017, il mese in cui i voucher sono stati aboliti per decreto e possono avere ancora influito sul totale. Nello specifico l’aumento dell’occupazione ha interessato il lavoro dipendente, +343 mila unità, e ha coinvolto nella stragrande maggioranza gli over 50, +328 mila. Gli over 50 al lavoro sono 231 mila, per la maggior parte dipendenti a tempo determinato, a termine, precari. Questo non è l’effetto del Jobs Act, ma della riforma Fornero che ha allungato l’età pensionabile. Quanto al Jobs Act non lo si può definire propriamente un successo: nell’ultimo anno, infatti, sono diminuiti i lavoratori con contratti a termine stabilizzati con il contratto a tempo indeterminato e «a tutele crescenti»: dal 24,2% del primo trimestre 2016 al 19,6% di quello del 2017. Con la fine dei bonus, elargiti senza obbligo alcuno per le imprese, sono diminuite le assunzioni a tempo indeterminato limitatamente al triennio degli sgravi, e le conversioni dei contratti, mentre aumenta la forma principe del precariato in Italia, e non solo: il contratto a termine, quello «riformato» dal ministro Poletti. A dimostrazione si può portare un altro dato: in un anno la quota dei nuovi occupati assunti è crollata di 10 punti tra il primo trimestre 2016 e quello del 2017. L’effetto combinato di queste tendenze permette oggi di parlare di un ritorno degli occupati al livello «pre-crisi». Nel frattempo i disoccupati sono aumentati a 3 milioni 138 mila, 51 mila unità in un anno. Nel primo trimestre la disoccupazione è aumentata a Sud dove ha raggiunto quota 103 mila persone in più, mentre al Centro è stabile e diminuisce a Nord (-53 mila). Colpisce di più le donne (+75 mila) mentre cala tra gli uomini (-24 mila). In generale interessa la fascia anagrafica più colpita dalla crisi, quella con 35 anni e oltre, e soprattutto chi prima di cercare lavoro era inattivo, pur contando su altre esperienze di lavoro. Di questa realtà composita, ma nettissima, la politica ha restituito soltanto il dato quantitativo, senza soffermarsi sugli orientamenti strutturali del mercato e sulla natura del precariato diffuso. Dati prodotti dalla confusione programmatica tra «occupati» e «posti di lavoro». La controprova è data dall’aumento, modesto, del tasso di occupazione: il tasso di occupazione cresce di 0,2 punti rispetto al trimestre precedente, restando tra i più bassi d’Europa. Sintomo che non si produce nuova occupazione. #Lavoro Correlati Istat, il lavoro che cresce è quello precario: più occupati gli over 50 e a termine
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Ricercatori e ricercati Dopo la puntata del 27 marzo, Report torna a occuparsi del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Pochi giorni fa la Guardia di Finanza, su ordine della Procura di Napoli, ha notificato sette avvisi di garanzia per associazione a delinquere e peculato. Tra gli indagati ci sono anche l'attuale direttore generale dell'Ente Massimiliano Di Bitetto e l'imprenditore e consulente Paolo D'Anselmi. L’inchiesta era nata in seguito alla denuncia fatta da un’ex dirigente del CNR, Laura Giuliano. I gonfiabili comprati con i soldi della ricerca erano destinati a Vittorio Gargiulo, l’ex segretario amministrativo dell’Istituto Ambiente Marino e Costiero. Uno dei più grandi e prestigiosi del Cnr. Un’altra fornitura di gonfiabili, Gargiulo se l’è fatta inviare perfino dall’Olanda. Costo 24.000 euro, sempre a spese del CNR. La motivazione? “Materiale di consumo necessario all’ancoraggio di siluri per rilevare onde elettromagnetiche”. Si sarebbe messo in tasca più di un milione di euro e con i soldi del CNR, oltre a ristrutturarsi casa, aveva anche comprato centinaia di telefonini e tablet. Una parte li avrebbe poi rivenduti on line; gli altri sarebbero finiti in tasca ad altri dipendenti. I soldi erano soldi derivanti dall’ingresso del PON: Programmazione Operativa Nazionale. Gargiullo è stato poi arrestato: si è scoperto che stava per scappare a Londra. Altri fatti emergono da un audit interno rimasto per mesi chiuso dentro al cassetto del direttore generale Di Bitetto e di cui non è stata consegnata una copia integrale a tutto il Cda. Nel 2012, 25 milioni della Comunità Europea, distribuiti dal Miur per finanziare i progetti di ricerca, vengono gestiti dall’Istituto Ambiente Marino Costiero. Da un’indagine interna è emerso che una parte di questi soldi è finita alla galassia di società vicine a Paolo D’Anselmi che negli anni hanno ricevuto contratti dal CNR per quasi 12 milioni di euro, soldi finiti anche a imprenditori che nulla hanno a che fare con la ricerca, come per la Errezeta, gestita da un ex rivenditore di automobili e la Fag della titolare di questo negozio di abiti da sposa vicino Roma. A imporre queste società, secondo la procura, sarebbe stato il direttore generale del CNR Massimiliano Di Bitetto. 15 dei milioni di euro dei fondi provenienti dall’Europa, destinati al Miur e poi girati al CNR sono stati spesi per costruire navi per fare ricerca in mare. Come il fast cargo “Rossana F” di 28 metri o la piattaforma Jakup “Laura G”, 400 metri quadrati di alta tecnologia in grado di fare rilevamenti fino a 25 metri di profondità. Consegnate nel 2015, nessuna di queste navi è stata mai utilizzata. La piattaforma si trova in queste condizioni: ormeggiata così ormai da mesi presso un cantiere privato al porto di Napoli. In questo documento interno al CNR, si spiegano anche i motivi: nessuno sa cosa farne e mantenerle in attività costerebbe anche un milione di euro. In questa vicenda è stata proprio l’Europa a volerci vedere chiaro. L’OLAF, l’Organismo Anti Frode europeo, ha chiesto la restituzione di quasi 15 milioni di euro dopo aver trovato numerose irregolarità nei progetti. Sigfrido Ranucci: "15 milioni di euro è una cifra importante, soprattutto se la paragoniamo ai 20 mila euro che il Miur stanzia per una scuola di 1000 persone con i quali devono comprarsi la cancelleria, i software, riparare i vetri, comprarsi anche il kit per il pronto soccorso. Intanto, in attesa del controllo della commissione, chi ha denunciato e scoperchiato il malaffare nel CNR, grazie a un audit, l’ex dirigente Laura Giuliano, si è dimessa ed è andata a lavorare all’estero. Invece, il direttore generale, Massimiliano Di Bitetto, che quell’audit ha tenuto in un cassetto per un anno e mezzo, ed è anche destinatario di un avviso di garanzia con l’accusa di peculato e associazione per delinquere, che dovranno essere ovviamente dimostrati, è rimasto al suo posto. Questo è". #Report
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Crack atomico In Europa ci sono 140 reattori attivi, una ventina hanno abbondantemente superato l’aspettativa di vita, altri invece soffrono di problemi strutturali, per altri ancora sono emerse gravi anomalie che erano state tenute nascoste falsificando documenti e rapporti interni. @ReportRai3 è andato a vedere in quale condizione si trovano le centrali nucleari europee. In Slovenia c'è il reattore di Krško: rispettano anche qui gli standard di sicurezza, ma il reattore è stato costruito a distanza di pochi metri da una faglia attiva in una zona sismica di pericolosità medio-alta. È stato costruito negli anni '70, con conoscenze antisismiche ormai obsolete: uno stress test del 2011 ha rivelato che con accelerazioni del suolo superiori dello 0,8 metterebbero a rischio il nucleo. Il direttore della centrale è però sicuro e, anzi, vuole costruire un nuovo reattore. L’Istituto Nazionale francese per la Sicurezza Nucleare, chiamato per una consulenza, risponde però in modo negativo e lancia un allarme anche sul reattore attivo. Krško è distante 130 km da Trieste e dalla costa veneta: se capitasse un incidente, la Bora che soffia su Trieste spingerebbe le emissioni radioattive proprio verso di noi. Siamo in Belgio, sul porto di Anversa. A fianco della banchina del porto ci sono i reattori della centrale e il villaggio che sorgeva vicino alla centrale è oggi abbandonato. In Belgio sono molti i reattori vecchi, dovrebbero durare 30 o al massimo 40 anni: nel 2015 dovevano essere chiusi, almeno i più vecchi, ma sono stati lasciati aperti senza fare controlli. Solo dopo Fukushima sono stati fatti dei test che hanno portato alla scoperta di crepe nel reattore. Sostituire i reattori costa milioni, costruirne di nuovi costa miliardi: negli anni '70 si diceva, sbagliando, che la loro manutenzione sarebbe stata economica. Il decommissioning non è sostenibile e i governi spesso non hanno una visione energetica complessiva e programmatica così la vita delle centrali viene prorogata nonostante tutto. Si va in Francia, a Fessenheim: è la centrale più vecchia, 40 anni di vita, ben il doppio di quella stimata. Sorge in un'area abitata dove vivono almeno un milione di persone. Le autorità si sono accorte ora di problemi al generatore di vapore: il rischio è che l'acqua usata per raffreddare il reattore si disperda. Il problema dei generatori è nell'acciaio: non sono perfetti come dicono i certificati. La società Areva aveva falsificato la certificazione e ignorato nel 2008 un difetto nei reattori. Areva è il secondo produttore al mondo di centrali nucleari. E in Italia? Nel 2000 nasce Sogin, società pubblica per la dismissione delle centrali: è finanziata dalle nostre bollette e dovrebbe mettere in sicurezza i vecchi impianti. Duemila tonnellate di scorie dovevano essere trasferite nel deposito nazionale entro il 2023 ma la data è sempre stata posticipata continuando tutt'oggi a costruire depositi temporanei e ad utilizzare quelli che invece andrebbero chiusi come a Garigliano. A Saluggia c'è il deposito più pericoloso: sorge sulle rive della Dora Baltea. Nel 2000 gli impianti sono finiti sott'acqua per l'esondazione del fiume. Il premio Nobel Carlo Rubbia, commentando l’accaduto, parlò di "catastrofe planetaria" appena sfiorata. Sotto l’impianto nucleare passa una falda acquifera che alimenta l’acquedotto di centinaia di Comuni. Regione della Champagne: qui la Francia ha costruito il deposito nazionale per le scorie. È stata scelta questa zona per il terreno argilloso, i bidoni che arrivano sono stoccati in cubi di cemento all'interno di un tunnel per contenere eventuali perdite. Tutti i paesi europei dovrebbero avere un deposito come quello francese: l'Italia rischia per questo una sanzione dall'Europa. La mappa per la scelta del sito italiano è ferma all'estate 2016. In Italia abbiamo una scadenza: entro il 2025 dovremmo avere questo deposito, perché in quella data la Francia ci restituirà 225 miliardi di scorie trattate. #Report
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Il mistero del Pil gonfiato dal deflatore Cosa ha determinato la revisione da “mini-boom” del Pil italiano del primo trimestre, pubblicata da Istat, e che ha visto il raddoppio del dato trimestrale da +0,2% a +0,4% e quello tendenziale crescere del 50%, da +0,8% a +1,2%? Per farla la più semplice possibile, la variazione del Pil reale si ottiene detraendo da quella nominale (a prezzi correnti) il deflatore del Pil. Che non è l'”inflazione”, cioè l’indice dei prezzi al consumo. Il deflatore del Pil misura il livello dei prezzi di tutti i beni e i servizi prodotti nell’economia, mentre l’indice dei prezzi al consumo misura quelli di tutti i beni e i servizi acquistati dai consumatori. Quindi, un aumento del prezzo dei beni e dei servizi acquistati dalle imprese o dalla pubblica amministrazione viene rilevato dal deflatore del Pil, ma non dall’indice dei prezzi al consumo. Questo in primissima approssimazione, quella che serve qui. Ora, andiamo a vedere di quanto è variato il Pil a prezzi correnti, cioè non deflazionato. Nelle parole di Istat: «Rispetto al trimestre precedente, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è diminuito dello 0,1%, il deflatore del PIL è diminuito dello 0,6%. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti è cresciuto dello 0,7%, mentre quello degli investimenti fissi lordi è diminuito dell’1,6%. Il deflatore delle importazioni è aumentato del 2,1% e quello delle esportazioni dell’1,0%» Su base congiunturale, cioè nel primo trimestre 2017 sul quarto trimestre 2016, il Pil nominale è diminuito dello 0,1%. Per calcolare quello reale, serve sottrarre alla variazione del Pil nominale la variazione del deflatore del Pil. In questo caso abbiamo quindi -0,1% – (-0,6) = +0,5%. Che è addirittura superiore al +0,4% reale segnalato, ma forse qui giocano gli arrotondamenti. Andiamo ora a vedere la variazione tendenziale, cioè annuale: «In termini tendenziali, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,7%, il deflatore del PIL è diminuito dello 0,5%. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti è aumentato dell’1,1%, mentre quello degli investimenti fissi lordi è diminuito dello 0,1%. Il deflatore delle importazioni è aumentato del 3,7% e quello delle esportazioni del 2,3%» Anche qui, da osservare: la variazione annuale del Pil nominale è uno striminzito 0,7%. Per dare la misura, la Spagna ha un Pil nominale tendenziale che cresce di 3,5% o poco più. Quello aiuta Madrid a ridurre il rapporto debito-Pil, per la ben nota regoletta. Quindi il Pil reale italiano cresce grazie a deflatori ampiamente negativi. Un bene, un male? Diciamo che non aiuta a ridurre il rapporto d’indebitamento, ecco. Se torniamo a guardare i dati reali, cioè deflazionati, vediamo che il contributo alla crescita non è cambiato rispetto allo scorso trimestre. Per fare questo, guardiamo la variazione della domanda nazionale al netto delle scorte. Siamo ancora e sempre nell’intorno trimestrale di +0,3/+0,4%. Meglio i consumi delle famiglie, negativo il contributo degli investimenti, la domanda estera netta sottrae crescita, perché la variazione delle importazioni supera quella delle esportazioni. La crescita viene da un +0,4% di scorte. Per riassumere: la variazione del Pil italiano del primo trimestre è frutto di un deflatore del Pil fortemente negativo, che spinge il Pil reale, mentre l’aumento delle “scorte” spiega (si fa per dire) la differenza tra il totale e le sue parti. Assai verosimile che la crescita italiana non fosse al +0,8% dello scorso trimestre, ma neppure al “mirabolante” 1,2% di questo. Il prossimo trimestre, ed i successivi, dovrebbero normalizzare questo “blip”. Resta il dato di fondo: la crescita nominale italiana, allo 0,7% tendenziale, resta troppo esangue per fronteggiare con successo il costo medio del nostro debito. Correlati Ocse: Crescita dell'Italia dato peggiore fra i maggiori Paesi
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A che punto è il risanamento ambientale dell'Ilva di Taranto A che punto è il risanamento ambientale dell’Ilva di Taranto, il più grande siderurgico d’Europa? Tutto è contenuto nell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) concessa dal ministero dell’Ambiente nell’agosto 2011, riesaminata nell’ottobre 2012 dopo lo tsunami dell’inchiesta sul presunto disastro ambientale e il sequestro degli impianti del luglio precedente, e infine rivista nei tempi di attuazione con l’approvazione da parte del governo del Piano Ambientale del marzo 2014. Sinora, a partire dal giugno 2013, da parte della struttura commissariale è stato possibile fare molto poco. Delle 97 prescrizioni molte sono in fase di attuazione, altre ancora da cantierizzare, le restanti sono rimaste soltanto sulla carta con i progetti approvati o in fase di approvazione. A parte, poi, ci sono il piano di gestione delle acque e dei rifiuti. Ecco perché il miliardo sequestrato ai Riva e messo a disposizione dei commissari per l’attuazione delle prescrizioni – perché questo sarà il loro compito sino alla conclusione prevista nel 2023 – è fondamentale. A prescindere dai progetti presentati dalle due cordate. Del resto, è bastato diminuire la produzione a partire dal settembre 2012, spegnere le cokerie più inquinanti, gestire con maggiore oculatezza i parchi minerali, rispettare le prime prescrizioni in tema di gestione degli impianti più pericolosi per l’ambiente e la salute di operai e cittadini per non sforare più i limiti previsti dalla legge sul Pm10 e il cancerogeno benzo(a)pirene come invece accaduto sistematicamente sino a luglio 2012. È chiaro però che tutto questo non basta. I lavori più importanti, che devono ancora essere svolti, vedranno la copertura dei parchi minerali (il cui progetto è stato approvato ma prima si dovrà provvedere alla bonifica di e terreni), il rifacimento delle cokerie, i lavori all’altoforno 5, il più grande d’Europa che da solo provvede al 45% della produzione del siderurgico. Così come i lavori per le acciaierie da dove ancora fuoriescono i famosi «slopping», nubi rossastre che si disperdono nell’aria in pochi secondi, o nel reparto agglomerato, da dove per anni è uscita gran parte della diossina che ha avvelenato i terreni. Ora, dopo il decreto con il quale il MiSE assegnerà la cessione dell’Ilva, la cordata aggiudicataria dovrà presentare la domanda perché venga rilasciata una nuova Aia entro 30 giorni. Pubblicata la domanda, ci sarà spazio per le osservazioni di cittadini, associazioni e di chiunque si senta coinvolto dalla presenza dello stabilimento. Raccolte le osservazioni, i tre esperti nominati dal ministero completeranno l’istruttoria e invieranno le carte al ministero dell’Ambiente, il quale completerà la procedura e, insieme al MiSe, trasferiranno tutto al Consiglio dei ministri per l’emanazione del Dpcm finale. Tempo previsto: entro dicembre. Correlati Ilva, il parere dell'Avvocatura di Stato: illegittimo il rilancio delle sole offerte economiche, valutare anche piani industriali e ambientali
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Poste futuro certo La nuova inchiesta di @ReportRai3 è dedicata alla più grande società di servizi del nostro Paese, Poste Italiane. Che è anche la nostra cassaforte, la cassaforte degli italiani, considerato che gestisce 498 miliardi dei risparmiatori. Solo che ultimamente più che parlare di francobolli e di pacchi, è più facile che parlino di prodotti finanziari, di investimenti in fondi immobiliari, di polizze vita. E a vendertele sono ex postini, impiegati postali, o giovani consulenti che non hanno alcuna formazione in materia. Questo perché Poste italiane si è di fatto trasformata nella più grande banca del nostro paese. Oggi se apri la porta a consegnarti al lettera è molto probabile che non sia un dipendente di Poste, ma che sia di una società privata. Questo perché nel 2011, quando si è aperto il mercato ad altri operatori, Poste ha preferito fare affari con la finanza invece che con i pacchi. Nel 2015 il governo Renzi che cosa ha fatto? Ha avviato la quotazione di una tranche del 35% del capitale. Si sono buttati dentro i fondi di investimento, i più grandi, che immaginiamo sono allettati più dai 498 miliardi dei risparmiatori italiani che ha in pancia Poste che dai suoi postini. A un anno e mezzo dalla quotazione dice l'ad di Poste Francesco Caio, la caravella Poste Italiane è ancora più forte e naviga veloce verso nuovi traguardi. Malgrado però i risultati tanto positivi, i piccoli risparmiatori sono delusi e il titolo ondeggia sotto il prezzo di collocamento. La fiducia del mercato non è convinta. E se i piccoli azionisti sono delusi, almeno c’è il sorriso della signora Mimi Kung, cinese di Taiwan, residenza a Londra. La principale rappresentante dei fondi in Cda. Gaetano Bellavia racconta che gran parte dei guadagni arriva dalla finanza. Venti miliardi di ricavi arriva da polizze, la consegna delle poste porta al 10% solo dei ricavi. Ascoltato in Parlamento, Caio ha dichiarato: "Il costo totale del servizio universale è circa di 1 miliardo all’anno. È chiaro che nel momento in cui lo Stato ci dà 260, nei 260 milioni noi non ci stiamo. Di fatto il servizio postale è totalmente liberalizzato, solo che è una concorrenza che non vuol toccare neanche con il manico della scopa il servizio universale. Perché noi siamo monopolisti di una sola cosa in Italia: delle perdite postali". Abbiamo troppe licenze e troppi consorzi dichiara il responsabile di AGCOM, l'autorità di vigilanza: si veda Vicenza dove Poste deve fare concorrenza ad una miriade di piccole società come Inbox dove si lavora a cottimo e il postino smista la posta a casa. Il mercato deve essere libero, ma non può mancare un controllo costante e deciso. C'è poi la storia dell'accordo tra Poste e Mediolanum, un evidente conflitto di interesse tra l'azienda pubblica di servizi, diventata sportello bancario, e la banca dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La sua Mediolanum, anche se non ha sportelli, firma una convenzione con Poste e in un colpo solo una banca privata utilizzando la rete di una partecipata pubblica, diventa la banca con più presenza di sportelli sul territorio. Perché non trasformare Poste Italiane nella più grande banca sociale del nostro territorio e utilizzare la sua formidabile rete per distribuire assistenza e servizi a chi ne ha bisogno? Invece Poste che cosa ha fatto in questi anni? Ha tolto le castagne dal fuoco ai governi di turno: ha bruciato milioni e milioni di euro per aiutare, invano, Alitalia e per metterli all’interno di un fondo a garanzia di quei crediti malati delle banche che hanno fatto crack. Dall’altra parte ha incassato commissioni dai risparmiatori che hanno investito nei fondi immobiliari, che oggi hanno perso fino al 90 per cento. "Avremmo voluto sapere qualcosa del futuro di Poste, ma gli interlocutori istituzionali, vecchi e nuovi manager, non hanno accettato di parlare con noi", è il rammarico del conduttore Sigfrido Ranucci. #Report
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Report Poste futuro certo

Report Collaborazione di Carla RumorChe cos’è Poste Italiane? Qual è il suo futuro? Domande semplici con le quali l’inchiesta di Alberto Nerazzini penetra un mondo complesso, ad altissima densità finanziaria, dove tutto, in fondo, può accadere. E sono domande necessarie, visto che in ballo ci sono ben 498 miliardi dei risparmiatori italiani. L’ultimo bottino che fa gola a tanti.

Istat, il lavoro che cresce è quello precario: più occupati gli over 50 e a termine 225 mila occupat a termine in più ad aprile secondo l’Istat. Quelli «permanenti» sono 155 mila. Il 67% degli occupati in Italia sono precari. Meno 122 mila occupati in meno nella fascia anagrafica 25-49 anni, ovvero quella più «produttiva». Insieme ai giovani, i lavoratori adulti sono i più colpiti dalla crisi. Da gennaio 2015 il numero di occupati a tempo indeterminato è cresciuto del 3,64%, quello degli occupati a termine del 12,26% Il lavoro a tempo indeterminato continua a cedere il passo al lavoro a termine, che costituisce il 60% della nuova occupazione dipendente tra aprile 2016 e 2017. Crescono gli occupati, soprattutto maschi, over 50 e con contratto a termine. La crescita dell’occupazione è del lavoro precario a termine ed è trainata dai lavoratori over 50 tra i quali aumenta anche la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione cala all’11,1%, il valore più basso da settembre 2012, ma aumentano sul mese gli inattivi (+34,7%), ovvero i lavoratori che non cercano più lavoro. La rilevazione mensile dell’Istat conferma un mercato del lavoro con modesti saldi positivi: +94 mila occupati, soprattutto tra le donne rispetto a marzo, +277 mila su base annua. Il tasso di occupazione generale, ovvero il perimetro entro il quale avviene questa crescita, resta ristretto: il 57,9%, una percentuale tra le più basse in Europa. Sintomo che non si produce nuovo lavoro, e dunque più posti di lavoro, ma aumenta il numero dei precariamente occupati. I dati dell’Istat sono utili per capire la differenza: la crescita, infatti, riguarda i contratti a termine (+225 mila) e meno quelli permanenti (+155 mila), mentre continua il calo degli «indipendenti», le partite Iva. Non può passare inosservato il fatto che sui 380 mila occupati complessivi, 362 mila lavoratori hanno più di 50 anni. È un trend macroscopico a cui corrisponde a aprile un poco significativo aumento degli occupati tra i 15 e i 34 anni (+37 mila) e un buco nero tra gli adulti 35-49enni. Per loro si può parlare di un crollo: -122 mila occupati. E pensare che questa fascia anagrafica passa per essere quella «più produttiva» in un’economia capitalistica. Questa asimmetria generazionale è dovuta a tre fattori. Il più importante è la riforma Fornero delle pensioni che ha aumentato drasticamente l’età pensionabile, obbligando i dipendenti a restare più a lungo al lavoro. Così facendo è stato impedito il subentro dei più giovani. Nel pubblico, questo vincolo è aggravato dal blocco del turn-over e dai tagli. In secondo luogo c’è la riforma dei contratti a termine di Poletti: l’abolizione della «causale». Ciò ha permesso alla forma contrattuale dominante sul mercato del lavoro di essere prorogata infinite volte incidendo sul numero degli occupati registrati dall’Istat. Una cifra può essere utile per comprendere la dimensione del fenomeno. Da gennaio 2015 il numero di occupati a tempo indeterminato è cresciuto del 3,64%, quello degli occupati a termine del 12,26%. Oggi in Italia il 67% nuovi occupati dipendenti è a termine. Questa precarizzazione della forza lavoro ha prodotto maggiori risultati in termini di propaganda sui numeri dell’occupazione ad uso dei governi. Già nel rapporto dello scorso marzo l'Inps aveva certificato il calo dei contratti stabili unito all'aumento dei licenziamenti. La riforma ha infatti prodotto risultati deludenti a fronte del gigantesco spostamento di ricchezza pubblica nelle tasche delle imprese. Ai 18 miliardi di euro spesi in sgravi contributivi triennali per i neo-assunti con il «contratto a tutele crescenti» non corrispondono significativi risultati. Con il taglio degli sgravi sono diminuite drasticamente le assunzioni. Per l’Inps, a marzo, i contratti a tempo indeterminato veri e propri erano solo 22 mila. I contratti a termine, inclusi quelli stagionali, sono 315 mila. Questo è l’esito dell’assistenzialismo statale alle imprese. #Lavoro
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Alternanza scuola-lavoro, due anni deludenti: 57% studenti confessa: "Non funziona" Il monitoraggio su 15mila liceali di nove Regioni: oltre la metà dice di partecipare a percorsi non inerenti ai propri studi e 4 su 10 ammettono di non essere messi nelle condizioni di studiare. A Taranto studenti mandati persino all'Ilva Studenti costretti a pagarsi le trasferte di tasca propria, a seguire attività avulse dall'indirizzo scolastico frequentato e a tralasciare per diverse ore lo studio delle discipline di insegnamento settimanali. Ecco il quadro del secondo anno di applicazione dell'Alternanza scuola-lavoro delineato dall'inchiesta dell'Unione degli Studenti su un campione di 15mila ragazzi che frequentano le scuole superiori di nove regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Sardegna, Sicilia, Campania, Puglia. Secondo il monitoraggio, il 57 per cento degli studenti intervistati "ha partecipato a percorsi di alternanza scuola-lavoro non inerenti al proprio percorso di studi" e 4 su dieci ammettono di essere caduti in situazioni in cui sono stati negati loro diritti, come quello di essere seguiti da un tutor o di non essere stati messi nelle condizioni di studiare. Dall'indagine regionale presentata mercoledì scorso si evince che il 41% degli studenti pugliesi denuncia la "mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro, mansioni spesso dequalificanti" e "l'impossibilità di denunciare eventuali soprusi nei luoghi di lavoro". "L'inchiesta Uds è utile perché ci aiuta a migliorare. Per farlo occorre però dire dove e come non funziona e non generalizzare. Servirà tempo perché nessuno ha la bacchetta magica che consenta dopo 50 anni di immobilismo di cambiare in un anno" ha replicato Gabriele Toccafondi, sottosegretario all'Istruzione. La Buona scuola ha introdotto la novità già per le terze classi dello scorso anno, esteso quest'anno alle quarte classi: l'obbligo di 200 ore di attività in azienda (musei, enti no profit, associazioni professionali, camere di commercio ed altri enti) se liceali e 400 per gli studenti iscritti nei percorsi tecnici e professionali da completare nell'arco dell'ultimo triennio di studi. E se in questi ultimi l'Alternanza sembra la logica conseguenza del percorso di studi, per i licei trovare attività da fare svolgere ai propri alunni non è stato facile. Anche perché le aziende non hanno risposto con entusiasmo alla chiamata del Miur. Più di un terzo dei ragazzi interpellati (il 38 per cento) dichiara di avere sostenuto spese per frequentare le ore di Alternanza. "In Sardegna o nel Molise - spiegano dall'Uds - per mancanza di un tessuto produttivo sul territorio in grado di sopperire alla mole di studenti, le scuole si sono trovate costrette a far spostare gli alunni dalla Regione chiedendo a questi ultimi di sopperire alle spese per lo spostamento con somme che hanno raggiunto i 300-400 euro". Il tutto per attività che nell'87 per cento dei casi sono state calate dall'alto senza alcun coinvolgimento dei diretti interessati. "Al Pacinotti di Taranto le studentesse e gli studenti hanno portato avanti il proprio percorso di alternanza scuola-lavoro all'Ilva, industria siderurgica famosa sul territorio per le gravi responsabilità di inquinamento ambientale", si legge nel dossier. E per seguire attività - come quella che ha visto centinaia di studenti impegnati a prendere ordinazioni in una nota catena che vende panini con hamburger o impegnati a fare esperienza in una notissima catena di abbigliamento spagnola - i ragazzi hanno tralasciato lo studio delle materie scolastiche, sia di mattina sia nel pomeriggio. Ora il sindacato degli studenti spinge per uno Statuto, ad oggi ancora assente, che tuteli gli studenti in Alternanza scuola-lavoro. #Scuola Correlati Alternanza Scuola-lavoro, la denuncia degli studenti: “Sfruttati per pulire i bagni dei ristoranti e fare volantinaggio”
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