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Cronache Ribelli

Cronache Ribelli è un progetto narrativo di rinnovamento della narrazione storica. Raccontiamo la storia degli ultimi. 📚Sito e shop: cronacheribelli.it 👍Facebook: Cronache Ribelli 📷Instagram: Cronache Ribelli Mail: [email protected]

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Jean Wehener aveva un ricordo sfocato che la tormentava legato al tempo trascorso in quella scuola di Baltimora. Era anche passato tanto tempo. Siamo agli inizi degli anni ‘90 e lei aveva frequentato la Western High School verso la fine degli anni ‘60. Servì uno psicologo per aiutarla a fare chiarezza nella sua mente. Ma ora era tutto più chiaro. Ricordava quei volti e quei nomi. Ricordava padre Joseph e padre Neil. E ricordava suor Catherine. insieme al suo sorriso. Tutti volevano bene a Suor Cathy, quella giovanissima suora di 26 anni. Ricordava le sue lezioni, le conversazioni, le domande che le pose quando vide in lei qualcosa che non andava. E ricordava padre Joseph che le mostrò il corpo di suor Catherine: "questa è la fine che fa chi parla male degli altri", le disse. Da allora, il buio. Lo stesso buio nel quale brancolava la polizia che non arrivò mai a trovare un responsabile per la morte della suora, ritrovata semi-congelata fuori città il 3 gennaio del 1970. Oltre vent'anni dopo saranno proprio i ricordi di Jean a permettere di riaprire il caso e dare un volto ai colpevoli dell'omicidio, oltre a svelare una rete di abusi ai danni delle ragazze che frequentavano la scuola. Un orrore che suor Catherine scoprì anche grazie alla fiducia delle sue studentesse e che le costò la vita perché aveva affrontato padre Joseph e aveva provato a denunciare il tutto alla polizia. Ma Joseph era il cappellano della polizia, e suo fratello un poliziotto considerato un eroe. La denuncia finì quindi nel dimenticatoio. Le indagini ripresero, come detto, dopo le rivelazioni di Jane, ma padre Magnus era morto nel 1988, mentre padre Joseph venne destituito dalla Chiesa ma morì comunque pochi anni dopo, nel 2001. Ancora oggi non si è fatta chiarezza sui responsabili, nonostante la vicenda sia tornata al centro dell'attenzione grazie ad una serie di film-documentari chiamata "The Keepers". A 50 anni dall'omicidio, suor Cathy e le ragazze della Western School attendono ancora giustizia. Abbiamo raccontato la storia di Suor Catherine anche in Cronache Ribelli vol. 2. Trovate i tre volumi nell'Antologia di Cronache Ribelli cliccando qui: https://bit.ly/4atNboQ
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Nella foto, scattata dal corrispondente di guerra Thomas Billhardt, l'aviere statunitense Dewey Waddell e la sua carceriera. Il pilota, abbatuto nel 1967, rimase prigioniero dei nord-vietnamiti fino al 1973. Il trattamento che il Vietnam del Nord riservò ai militari americani catturati dentro i suoi confini fu piuttosto duro. Il Paese infatti dichiarò a più riprese che i prigionieri americani catturati in Vietnam del Nord erano criminali di guerra, che combattevano un conflitto non dichiarato e pertanto illegale. Come tali non potevano godere dei diritti concessi ai soldati catturati secondo la convenzione di Ginevra. Quando a Parigi il 27 gennaio del 1973 i rappresentanti americani e vietnamiti firmarono gli accordi per la cessazione delle ostilità, cominciò l'operazione "Homecoming". 591 prigionieri di guerra americani tornarono a casa sui 2.000 che erano stati catturati nel corso della guerra. Gli altri erano deceduti durante la prigionia. Questa foto comunque ebbe una vasta eco propagandistica poiché fece vedere che una piccola donna vietnamita, che magari prima era stata una normale contadina, poteva tenere imprigionato un aviatore appartenente a uno degli eserciti più forti del mondo.
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Per la prima volta pubblichiamo in Italia alcuni discorsi, articoli e interventi di Rosa Luxemburg relativi al periodo 1914-1918, che abbiamo raccolto sotto il titolo “O guerra o rivoluzione”. Si tratta di scritti profondamente attuali non soltanto perché l’Europa e il mondo si trovano di nuovo in una fase di conflitto sempre più esteso, ma soprattutto poiché le masse contemporanee sono schiacchiacciate da sistemi di propaganda che impediscono loro di produrre una posizione autonoma rispetto agli interessi delle oligarchie economiche, militari e politiche di ogni latitudine. Speriamo che, leggendo questo libro, i nipoti di quei lavoratori, di quelle donne, di quei giovani a cui Rosa si rivolge possano riflettere su parole come queste e diventare protagonisti della fase che purtroppo ci troveremo a vivere. “Noi nelle assemblee istruiamo le masse e diciamo loro: commettete un crimine contro voi stessi se continuate a permettere che i popoli si scannino a vicenda. Noi confidiamo che il cuore dell'operaio, una volta conquistato dagli ideali della fratellanza tra le nazioni, non abbandonerà mai più i nostri ideali, neppure se sarà avvolto nel pastrano del re. E speriamo che prima o poi arrivi, che debba arrivare, il momento in cui diremo: no, non lo faremo.” Da oggi “O guerra o rivoluzione” è in prevendita sul nostro sito a prezzo scontato. Lo trovate qui: https://bit.ly/4elClo0
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Giuseppe Valarioti, nato il 1° marzo 1950 a Rosarno, era un giovane come tanti, figlio di quegli agricoltori che coltivano e raccolgono, col sudore della fronte, gli agrumi della Piana di Gioia Tauro. Giuseppe veniva da una famiglia cattolica, ma era cresciuto guardando le ingiustizie che colpivano i lavoratori. Fu una scelta non scontata quella di iscriversi al PCI. Lo fece proprio per difendere quei contadini che erano costretti a lavorare sotto il giogo della ‘ndrangheta che aveva il monopolio completo sugli agrumeti della zona. Accanto alla militanza Giuseppe porta avanti gli studi all’Università di Messina, l’insegnamento di storia e filosofia nel liceo di Rosarno e lo studio della Magna Grecia e dell’antica città di Medma. Crea inoltre una cooperativa agricola, Rinascita, che spezza il monopolio ‘ndranghetista nel settore. Fino alle elezioni provinciali e regionali del 1980, dove Valarioti non si candida ma lavora instancabilmente per il PCI e per l’elezione del suo amico omonimo Peppino Lavorato. I comizi si alternano con le auto bruciate e le minacce che culmineranno nella gioia di una vittoria inaspettata. Una gioia squarciata da due colpi di fucile nella notte. A terra verrà ritrovato il corpo di Giuseppe, il primo a soccorrerlo sarà proprio l’amico Peppino, ma non c’è nulla da fare. Valarioti muore l’11 giugno del 1980 a soli trent’anni anni. Sarà il primo omicidio “politico” della ‘ndrangheta in Calabria. Nei giorni seguenti, si sentono le solite storie: “Ma quali mafia, è stata na storia i fimmini”; “nu c’è a ‘ndranghita a Rosarno”. Opinioni discutibili ma avallate anche dalla giustizia che, quarant’anni anni dopo, non ha ancora trovato un responsabile per la morte di Giuseppe. I primi indiziati sono stati i Pesce, tra le ‘ndrine più potenti del territorio, nella fattispecie Giuseppe Pesce. Il risultato: assoluzione con formula piena. Poi arriverà la confessione di un pentito, Pino Scriva, che accusa i Pesce ed i Piromalli dell’uccisione di Valarioti per motivi politici e legati alla cooperativa. Niente. A nessuno importa la dichiarazione di Scriva. Non viene aperto un nuovo processo, le sue parole non vengono neanche utilizzate nell’appello del processo ai Pesce: nuova assoluzione. Muore due volte, Giuseppe Valarioti, ma rimane viva la sua eredità ed il concetto che la lotta alla ‘ndrangheta è anche la lotta di tutti i lavoratori. Cronache Ribelli La storia di Giuseppe è raccontata anche in "Disonorate società", il nostro libro sulla mafia e soprattutto sull'antimafia sociale. Lo trovate qui: https://bit.ly/449Rwfy
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Non furono solo le botte, le sprangate ed infine le coltellate ad uccidere Giacomo Matteotti. Fu quel sistema marcio che prendeva il nome di fascismo. Un sistema che si reggeva sullo sfruttamento dei lavoratori italiani, sul sostegno dei grandi capitali nazionali, sul finanziamento di latifondisti e industriali. Un sistema in cui la corruzione, il dossieraggio, i ricatti, i brogli erano eretti a monumento civile e strumento quotidiano dell'agire politico. Quando Giacomo Matteotti venne rapito ed ucciso da Amerigo Dumini, già picchiatore e assassino, stava infatti sia per pronunciare l'ennesimo discorso contro i brogli elettorali e le violenze fasciste, sia per denunciare il malaffare e la corruzione che il nascente regime si stava impegnando a diffondere in tutto il Paese. In particolare il deputato socialista avrebbe denunciato il pagamento di cospicue tangenti che la compagnia Sinclair Oil avrebbe pagato ad esponenti fascisti, tra cui il fratello del Duce, Arnaldo, per ottenere lo sfruttamento esclusivo dei potenziali giacimenti fossili presenti in Emilia e Sicilia. Che l'omicidio, come riportano alcune fonti, sia avvenuto per volontà diretta dello stesso Duce oppure sia stata un'azione autonoma di alcune camicie nere, non è ancora chiarito perfettamente. Sul piano storico il fatto va approfondito, su quello politico cambia poco: il fascismo ha ucciso Matteotti perché rappresentava un pericolo per la sua stabilità. Il deputato infatti avrebbe mostrato a tutti come il regime, ben lungi dal difendere gli irreali interessi di tutti, difendeva i privilegi dei ceti apicali italiani e al tempo stesso svendeva risorse "nazionali" in cambio di tangenti. Chiudiamo quindi con le parole dello stesso Matteotti, che bene aveva inquadrato il ruolo del fascismo nel dopoguerra. "L'economia e la finanza italiana nel loro complesso hanno continuato quel miglioramento e quella lenta ricostruzione delle devastazioni della guerra, che erano già cominciati ed avviati negli anni precedenti; ma ad opera di energie sane del paese, non per gli eccessi o le stravaganze della dominazione fascista; alla quale una sola cosa è certamente dovuta: che i profitti della speculazione e del capitalismo sono aumentati di tanto, di quanto sono diminuiti i compensi e le più piccole risorse della classe lavoratrice e dei ceti intermedi, che hanno perduta insieme ogni libertà e dignità di cittadini".
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Che cosa pensereste se un giorno la polizia della vostra città vi mandasse una lettera per avvisarvi che sta indagando nella scuola materna di vostro figlio a proposito di abusi sessuali praticati nei confronti dei bambini? E se poi vi chiedesse di interrogare vostro figlio e compilare un apposito modulo con le sue risposte? Questo avvenne nel 1983 in California durante il caso della McMartin School. Una scuola gestita da Peggy McMartin e dai suoi familiari, che aveva ospitato per decenni diverse centinaia di bambini senza mai nessuna lamentela o scandalo. Finché, nell’agosto del 1983, Judy Johnson si rivolse alla polizia dicendo che il suo Matthew, di appena due anni, era stato molestato da Ray Buckey, figlio della signora Peggy e tuttofare all’interno della scuola. Nonostante non vi fossero fisiche prove a supporto di questa tesi e sebbene Judy soffrisse di alcuni gravi disturbi psicologici, la polizia iniziò delle indagini serrate. Fece perquisire la scuola e interrogò ripetutamente Ray senza ottenere nulla. Fu allora che, invece di fermarsi, il capo della polizia di Manhatthan Beach, la località in cui si svolsero i fatti, mandò una lettera a tutte le famiglie, centinaia, che avevano portato i propri figli alla McMartin. Presi dal panico, dalla paranoia e vittime di un’isteria collettiva, molti genitori portarono i propri figli al Children's Institute International, un’associazione contro gli abusi sui minori. I bambini vennero esaminati da Kee MacFarlane, una psicoterapeuta che riscontrerà, sempre senza conferme biologiche, centinaia di casi di violenze. Violenze che saranno denunciate dalla stampa, in particolare da Wayne Satz, giornalista dall’assalto che trascinò sulla gogna mediatica Peggy e suo figlio Ray. Si scoprì poi che Satz all’epoca dei fatti intratteneva una relazione con Kee MacFarlane, e che quest’ultima, insieme al resto del personale del CII, utilizzò nel corso delle sedute domande tendenziose, non accettando risposte negative. I bambini nel corso delle sedute - che il CII fece pagare più di 400 dollari dallo stato della California - arrivarono a raccontare fatti surreali. Parlarono di riti satanici, video pornografici, ma anche di Ray Buckey che volava, di una galleria sotterranea che collegava la scuola ad un cimitero dove si tenevano messe nere, di aver volato in aereo e visto streghe. Ci vorranno ben sei anni e uno dei più lunghi e costosi processi della storia americana per dimostrare definitivamente che non c’era stata alcuna violenza verso i bambini. La vita dei McMartin era distrutta per sempre e lo stato della California aveva finanziato con sedici milioni di dollari una delle più grandi cacce alle streghe di ogni tempo. Con questa storia inizia uno dei capitoli di Non esistono gli individui, il nostro libro che raccoglie gli esperimenti di psicologia sociale più importanti dello scorso secolo. Lo trovate qui: https://bit.ly/417l8IL
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Era iniziato in Ghana. Ma sarebbe finito lì. L'impero britannico aveva già perso l'India e non avrebbe lasciato anche l'Africa così facilmente, e lo dimostrò nella repressione della rivolta dei Mau Mau, nel Kenya degli anni '50, durante la quale si spese in tutta la sua brutalità. Quando John Cowan, ufficiale dell’esercito di sua maestà responsabile delle prigioni coloniali britanniche, soffiò nel suo fischietto, di fronte a lui c’erano 85 kenyoti che avevano preso parte alla rivolta; al suo fianco, invece, c’era una squadra di soldati armati di mazze e bastoni, che all’ordine del loro superiore si accanirono contro i prigionieri. Era il 3 marzo del 1959, e nel campo di prigionia di Hola i colonizzatori britannici continuavano nella loro opera di tortura e repressione delle lotte per l’autodeterminazione del popolo kenyota. Nel campo di Hola trovava la sua massima espressione il potere coloniale ed oppressivo inglese, con i ribelli più determinati rinchiusi in un ulteriore sotto-campo, sottoposti a torture e lavoro forzato. I ribelli catturati e rinchiusi, però, erano stati spogliati non solo della libertà, ma anche della paura di resistere: quegli 85 si rifiutarono di essere trascinati al lavoro forzato, e i soldati, forti della sola ragione di violenti colonizzatori, scatenarono la loro reazione. Di quegli 85, 11 rimasero sul terreno del campo di Hola; tutti gli altri non avrebbero mai dimenticato, e a molti rimasero anche delle gravi menomazioni ad impedirglielo. Una pagina brutale era stata aggiunta alla lunga storia di sangue che fu la vicenda coloniale inglese in Africa e in Kenya, una pagina che, da manuale fu tenuta il più possibile sotto silenzio, come tante altre che, forse, ancora non sono venute a galla.
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I militari della Repubblica Italiana invece di urlare “Decima” dovrebbero onorare le decine di migliaia di soldati italiani morti di fame, stenti e malattie durante la prigionia nella Germania nazista. E con loro onorare tutti gli altri internati, circa settecentomila, che dissero “NO” all’arruolamento nella Repubblica Sociale. Gli incursori, i paracadutisti, i carabinieri, invece di richiamarsi alla tradizione di un esercito invasore, imperialista e sconfitto su ogni fronte di guerra dopo anni di occupazione criminale, dovrebbero richiamarsi alla storia dei tantissimi soldati italiani che, anche pentendosi di quello che avevano fatto nel triennio 1940-1943, disertarono la Repubblica Sociale e aderirono alla Resistenza. Se non lo fanno è perché non si riconoscono nella storia popolare di questo paese, nei suoi percorsi di progresso sociale, nelle sue lotte per l’emancipazione, per la libertà, per l'uguaglianza. Viceversa molti dei nostri militari si sentono in continuità con le peggiori nefandezze compiute dall’esercito italiano nel corso della sua storia. Non è un caso che il sito della marina militare italiana celebri la Decima con queste parole: “Fascio eletto di spiriti eroici, la X Flottiglia M.A.S. è rimasta fedele al suo motto: "Per il Re e la Bandiera". Forse la marina ha dimenticato che ora siamo una Repubblica. Così come non è un caso che i carabinieri nel loro sito ricordino episodi di guerra coloniale, celebrandoli come fossero gesta eroiche. Siamo il paese in cui invece di ricordare gli Alpini che combatterono nella Resistenza, istituiamo date celebrative di episodi legati all’invasione dell’Unione Sovietica. E potremmo andare avanti a lungo. Poco tempo fa abbiamo pubblicato un bellissimo libro nel quale l’autore racconta la storia di suo nonno, internato militare che rifiutò il fascismo. Ecco, riprendiamo le parole di questo soldato coraggioso per chiudere questa riflessione: “Un ufficiale italiano insiste dicendo che chi aderisce all’esercito fascista avrà un trattamento buono e avrà la possibilità di andare in Italia. Per me e i tanti amici sono vane parole, la nostra idea non si cambia, siamo decisi a non andare coi fascisti, piuttosto moriremo di fame, ormai abbiamo deciso.” Perché non serve coraggio per dire “Signorsì”, serve coraggio per dire “No”. Cronache Ribelli Chi volesse il libro “Mio nonno diceva sempre di No” può trovarlo qui: https://bit.ly/4bj5CxE
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Oggi la storia di Alan Turing è di dominio pubblico, ma nel 1954 nessuno ancora conosceva il ruolo fondamentale che questo matematico aveva avuto nel decifrare il sistema nazista Enigma, poiché il governo inglese aveva imposto il silenzio a tutti coloro che avevano lavorato al progetto. Turing, i cui studi del dopoguerra spaziarono in numerosi campi, pur essendo una mente geniale e uno studioso di spicco faticava a trovare un ambiente sociale accogliente e a sviluppare relazione interpersonali profonde. Alan era omosessuale, condizione che aveva almeno pubblicamente dovuto celare per tutta la vita, e l’impossibilità di vivere alla luce del sole gli pesava terribilmente. Nel 1952 Turing aveva stretto una relazione con Arnold Murray, di 19 anni, un ragazzo della classe operaia che a volte si prostituiva per guadagnare qualche soldo. Ma con Alan il legame andava oltre l’aspetto economico; il ragazzo non voleva essere pagato ma talvolta rubava dei soldi dal portafoglio del matematico. Fu questo a portare Turing a sospettarlo di un furto avvenuto nella sua abitazione. Ma invece di cercare il colpevole del furto, dopo aver ascoltato la denuncia di Alan, la polizia si presentò per arrestare lui e Arnold: l’accusa era atti osceni con altro uomo, regolata da una legge del 1885. Turing aveva ammesso agli agenti il suo orientamento sessuale, e così era diventato colpevole di aver reso pubblica la sua omosessualità e di averla vissuta, per di più con un membro di una classe inferiore. Il caso “La Regina contro Turing e Murray” venne celebrato in tribunale il 31 marzo 1952 a Wilmslow. I due imputati si dichiararono colpevoli. Ad Alan il giudice offrì due alternative: il carcere o la castrazione chimica. Venne trattato come fosse responsabile di un crimine sessuale. Turing dovette quindi acquisire ormoni femminili per non finire in prigione, mentre lo scandalo del processo travolgeva la sua esistenza. L'assunzione di estrogeni modificò sia il suo aspetto fisico che il suo stato psicologico: cadde in una profonda depressione mentre veniva socialmente marginalizzato e schernito. Il 7 giugno 1954 Alan Mathison Turing scelse di andarsene dando un morso ad una mela intrisa di cianuro. Sono dovuti passare più di cinquant’anni prima che il governo inglese, nel 2009, chiedesse scusa ufficialmente ad Alan Turing per quello che gli aveva fatto.
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Paolo Secchiari, il padre, nacque a Gragnana, frazione di Carrara, nel 1865. Fin da giovanissimo si avvicinò alle idee anarchiche che, in quell’area della Lunigiana, si diffusero rapidamente tra i lavoratori del marmo. Lui, umile pastore, trasmise ai figli questi ideali e partecipò attivamente ai movimenti di lotta contro il governo Crispi che infiammarono la regione alla fine dell’Ottocento, venendo arrestato insieme ai fratelli. Da allora in poi Paolo sarà tenuto sotto osservazione dalle pubbliche autorità, ma gli anni peggiori inizieranno con la comparsa del fascismo sulla scena politica. Nel 1921 il circolo anarchico di Gragnana viene attaccato dai fascisti che picchiano numerose persone. Secchiari non si piega e così iniziano a perseguitarlo. Gli disperdono il gregge, gli gettano il latte e distruggono il formaggio. Poi il 6 agosto 1925 durante l’ennesima aggressione, i fascisti percuotono selvaggiamente anche sua moglie Giselda, che non si riprenderà mai dalle ferite riportate e morirà. Anche due dei suoi figli, Santino e Ceccardi, vennero uccisi in quegli anni: dopo l’ennesima violenza subita dai genitori, erano andati a vendicarli e avevano aggredito a coltellate uno dei fascisti che aveva picchiato la madre. Intercettati in due momenti dai carabinieri, saranno uccisi in scontri a fuoco. Dante, altro fratello, sarà invece incarcerato per diversi anni. Anche Silvia, loro sorella, subirà le conseguenze della sua fiera opposizione al fascismo. Malmenata ripetutamente dagli squadristi, rimase infine paralitica. Ma nonostante la disabilità non si piegò mai e continuò a manifestare i propri ideali, diventando un simbolo vivente di lotta. L’ultimo dei figli di Paolo Secchiari, Arturo, dopo l’Armistizio entrò nella Resistenza, all’interno della formazione Elio operante nella zona di Carrara e partecipò alla liberazione della città. Insieme a Dante, al padre e a Silvia sopravvisse alla guerra e al regime. Quest’ultima, seppur di umili origini e di basso grado di scolarizzazione, scriverà una toccante poesia per celebrare la fine del Ventennio, di cui qui riportiamo una parte. "Credevano che il fascio fosse in eternità E invece è un passaggio ch’è venuto e se ne va Non ci sarà una testa che vi perdonerà Le tante malefatte fino all’eternità."
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Era giovanissimo, Clément. Aveva 19 anni ed era originario di Brést, importante città della Bretagna occidentale. Un porto attivissimo che i numerosi lavoratori portuali hanno trasformato in una roccaforte dei movimenti e delle lotte. E dell’antifascismo. Quell’antifascismo che Clément si porterà dietro quando andrà a studiare a Parigi. Era anche un ragazzo dalla corporatura abbastanza minuta, sia di costituzione sia perché aveva affrontato - guarendo - una brutta leucemia, che lo aveva debilitato nel fisico ma non certo nella mente. Quel 5 giugno del 2013 Clément era con alcuni compagni in un negozio di abiti usati quando si imbatté improvvisamente in alcuni coetanei affiliati ai Jeune nationaliste revolutionnaire, un gruppo di estrema destra facente parte della grande galassia della destra eversiva francese, la quale strizza volentieri l’occhio al Front National. Clément e i suoi amici li riconoscono, partono le provocazioni e gli insulti ma alla fine i due gruppi si separano. Escono per primi gli antifascisti, che iniziano a dirigersi verso la metropolitana. Un addetto alla sicurezza del negozio, quando stanno per uscire gli altri, indica loro di andare in direzione opposta per non avere problemi. Loro invece seguono Clément e gli altri perché, come diranno in seguito, vogliono “evitare di farsi prendere alle spalle”. Quello che accadde negli istanti successivi venne dibattuto a lungo. Secondo i JNR furono gli antifascisti a tornare indietro per affrontare i rivali, i quali ribadiscono come la loro intenzione fosse di andare a prendere la metro e tornare a casa. Fatto sta che qualcuno raggiunse Clément e lo insultò. In brevi istanti partirono dei colpi. Clément rimase a terra: finirà in coma e morirà il giorno successivo. Secondo molti i colpi vennero sferrati utilizzando un tirapugni, circostanza confermata e smentita da diverse testimonianze, ma di cui uno dei responsabili si vanta via SMS, giustificandosi sulla base dell’“euforia” del momento. I tre responsabili della morte di Clément sono Esteban Morillo, di origine andalusa, Samuel Dufour et Alexandre Eyraud, tutti sui 20 anni. Nella loro vita privata, l’affiliazione all’estrema destra e un fascino indiscusso per Hitler e per la Germania nazista. E la negazione di questa vicinanza alle idee naziste al momento del processo, che terminerà con la condanna a 11 e 7 anni per Morillo e Dufour e l’assoluzione per Eyraud. In questi anni tanto, troppo si è detto sulla sorte di Clément Méric. Nella sua storia vi è però una chiara certezza: la sua morte fu la conseguenza dei colpi ricevuti il 5 giugno 2013 da 3 ragazzi appartenenti a un gruppo di estrema destra francese. La sua morte, soprattutto, fu la conseguenza del suo antifascismo.
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Se siete a Roma, questa sera non prendete impegni! Alle 20.30 interverremo con una nostra presentazione sulla Resistenza nell'evento Ugo e Noi, in memoria di Ugo Forno. Alle 22 presenteremo inoltre il talk "Letteraturap" con Murubutu, rapper e professore di storia e filosofia.
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Il 29 maggio del 1949 un gruppo di anarchici spagnoli, resistenti antifranchisti, varcano il confine dei Pirenei, entrando in Spagna clandestinamente dalla Francia. A guidarli, come decine, forse centinaia di altre volte, c’è Francisco Denis Diez. Francisco è anche lui in esilio in Francia, dalla fine della guerra civile e dall’inizio della dittatura di Franco. Ma la lotta non finisce con l’esilio. Catalá, questo il soprannome di Francisco, che ha vissuto per anni a Barcellona, è un anarchico e un sindacalista, membro del sindacato dei trasporti, e allo scoppio della guerra civile ha deciso di imbracciare le armi e combattere, diventando un importante commissario nella Colonna Durruti. Con la vittoria dei franchisti, Francisco fu tra i tanti costretti all’esilio, ma fu anche tra i tanti che non vollero smettere di lottare. E quale migliore contributo alla lotta, per un anarco-sindacalista con alle spalle una vita nel sindacato dei trasporti, se non aprire varchi attraverso i Pirenei, attraverso cui far passare decine di compagni della resistenza? In dieci anni Francisco fece entrare in Spagna decine di anarchici antifranchisti, tra cui anche “El Quico” Sabaté Llopart, alimentando così la resistenza al regime. Quello del 29 maggio 1949 fu però il suo ultimo viaggio. Catturato il 3 giugno dalle autorità franchiste nei pressi di Gironella, si trovò suo malgrado ad essere per una volta trasportato, ma verso una caserma, quella di Lerida. Caserma che però Francisco non vedrà mai. I franchisti lo avrebbero torturato, cercando di estorcergli informazioni sui compagni della resistenza, e Francisco Denis Diez, Catalá, l’anarco-sindacalista, il guerrigliero, la guida dei Pirenei, preferì ingerire una capsula di cianuro, morendo per la resistenza antifranchista quello stesso 3 giugno 1949.
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La nostra seconda maglietta del 2024 celebra i moti di Stonewall, ovvero la sollevazione della comunità LGBTQ+ contro la violenza e le discriminazioni delle istituzioni di New York. Per accompagnare questa data abbiamo scelto una frase di Marsha P. Johnson, che insieme a Sylvia Rivera e Stormé DeLarverie ha dato inizio alla rivolta: "You never completely have your rights, until you all have your rights", traducibile con "Non avrete mai tutti i vostri diritti, se non avranno tutti i vostri diritti.” Questa frase ha un significato importante, perché ci ricorda come sia giusto unire le lotte e rivendicare tutti i diritti per tutti gli individui oppressi per classe sociale, per genere, per “razza”, per identità, orientamento sessuale e via dicendo. Indossare questa maglia significa, quindi, portare avanti questo messaggio. La trovate qui: https://bit.ly/454tvXL
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Lascia stare i nostri morti, vigliacco. Sì tu, generale, sei un vigliacco, perché prima corteggi con le tue provocazioni la parte più schifosa di questo paese, e poi fingi di non sapere di cosa sta parlando. Il ragazzo nella foto, invece, quello col cartello “Aveva tentato con le armi di colpire la Decima” è un eroe. Si chiamava Ferruccio Nazionale, era ragazzo di ventidue anni, un operaio, un partigiano della 76ª Brigata Garibaldi. Il 29 luglio 1944 Ferruccio cercò di uccidere don Augusto Bianco, cappellano militare della X MAS e criminale di guerra, noto per intimorire le famiglie dei partigiani e per spingere le persone alle delazione tramite minacce o altri mezzi. Ferruccio fu preso prima di poter scagliare la bomba che aveva in mano. Torturato e mutilato (secondo alcuni resoconti gli tagliarono la lingua), Ferruccio fu ucciso e poi impiccato con i piedi legati dal filo di ferro dai militi della X MAS i quali, cantando giovinezza, costrinsero i passanti a guardare. Chi inneggia alla X MAS inneggia a questi servi dei nazisti, vigliacchi capaci soltanto di fare la guerra dietro i pantaloni delle SS e della Wehrmacht. Generale ci fai vomitare, ma più schifo ci fanno le istituzioni di questo paese le quali, nate dal sacrificio di persone come Ferruccio Nazionale, hanno riempito le caserme prima di criminali di guerra mai pentiti e poi di omuncoli come te, che ogni giorno, protetti dalla propria divisa, infangano la memoria di uomini e donne che hanno versato il sangue per un ideale. Ideale, qualcosa che quelli della tua risma non sanno nemmeno cosa sia. Se questo paese avesse un pizzico di memoria, in ogni caserma, in ogni scuola e in ogni ufficio ci sarebbero immagini di persone come Ferruccio, di fronte a cui tutti devono abbassare la testa. E allora te lo ripetiamo, lascia stare i nostri morti perché noi non smetteremo mai di difenderli, costi quello che costi. Cronache Ribelli
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Serena Mollicone aveva appena 18 anni quando, il primo giugno del 2001, scomparve ad Arce. Venne ritrovata alcuni giorni dopo incappucciata e senza vita, mani e piedi legati, in un boschetto di Anitrella. I primi sospetti furono indirizzati verso Guglielmo, il padre di Serena, morto quattro anni fa: fu ingiustamente calunniato e persino fermato durante i funerali della ragazza. Poi per l’omicidio e per l’occultamento di cadavere nel 2003 fu arrestato Carmine Belli, carrozziere di Arce, che prima di essere prosciolto da ogni accusa passò un anno e mezzo in carcere. Cinque anni dopo le indagini furono riaperte anche grazie alla mobilitazione della famiglia di Serena e in quell’occasione, prima di essere sentito dai magistrati, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Secondo la procura della Repubblica l’estremo gesto fu la conseguenza delle pressioni subite dai colleghi, e nello specifico dall’allora comandante della Caserma di Arce, Franco Mottola, padre di Marco. Quest’ultimo avrebbe discusso all’interno della caserma con Serena il giorno della sua scomparsa, e poi l’avrebbe aggredita in un alloggio in disuso, facendole battere la testa e perdere conoscenza. La ragazza sarebbe poi stata portata nel boschetto e qui soffocata. Da lì in poi iniziarono i depistaggi. Forse Serena voleva denunciare dei traffici di droga locali. Il 15 luglio 2022 i giudici della Corte di Assise di Cassino assolsero Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Annamaria dall’accusa di omicidio "per non aver commesso il fatto". Furono assolti ”perché il fatto non sussiste” Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano, che erano stati accusati rispettivamente di favoreggiamento personale in omicidio volontario e concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di Santino Tuzi. Attualmente è in corso il processo d’appello che vede gli stessi imputati del primo grado. Come già detto in passato solo quando cambierà la società cambieranno gli esiti di certi processi. Quando avremo giustizia sociale ci sarà anche giustizia nelle aule di tribunale: allora anche Serena troverà la pace che merita.
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La famiglia di Viola era poverissima. Il padre aveva perso una mano e la madre si arrangiava in lavoretti saltuari. Dopo aver cambiato spesso residenza si stabilirono nel Tennessee. Poveri erano e poveri restavano, ma in quello Stato americano vennero a contatto con una realtà diversa: quella di altre persone, povere come loro ma che non avevano diritto ad alcuna forma di solidarietà. Siamo nel secondo dopoguerra e la comunità afroamericana vive in condizioni miserabili. Alle condizioni economiche precarie si affiancano violenze continue a base di pestaggi, stupri e linciaggi. Viola capì che erano poveri come lei. La sua lotta per una vita migliore era la stessa dei neri per l'emancipazione sociale prima che economica. Quando Martin Luther King disse che tutti gli americani avrebbero dovuto battersi per i diritti degli afroamericani, non ci pensò un attimo, nonostante fosse sposata e con 5 figli. Suo marito, un italoamericano di origini calabresi, non era contento: lui preferiva starsene da parte, tranquillo. Ma non si oppose. E Viola partì. Arrivò a Selma, dove si stava preparando la famosa marcia Selma - Montgomery del 1965: aiutò prima nell'organizzazione dell'evento e poi si offrì di riaccompagnare i partecipanti da una città all'altra dopo la marcia del 25 marzo 1965. Insieme ad un attivista afroamericano, Leroy Moton, si fermarono ad una stazione di servizio. Fu qui che iniziarono gli insulti, feroci, rivolti a lei ed al ragazzo. Anzi, sicuramente più a Viola che a Leroy. "La sola cosa che odiano più dei neri sono i bianchi che li aiutano", dirà decenni dopo una delle sue figlie, Lilleboe. Una donna vista in compagnia di un nero era considerata la peggiore aberrazione possibile negli Stati del Sud. I due ripartirono, pensando che fosse finita lì. Ma, ad un tratto, mentre erano in coda ad un semaforo, vennero affiancati da una macchina con a bordo 3 membri del Ku Klux Klan ed un informatore della polizia. Partirono diversi colpi, due dei quali colpirono Viola alla testa, uccidendola sul colpo. Ma il razzismo non si piegò neanche di fronte alla morte di una madre. "Ecco la figlia dell'amante dei neri". Erano lì, allineati, ad urlare gli insulti alla famiglia Liuzzo. 5 figli, la più grande adolescente, poco prima del funerale. Pochi giorni dopo trovarono una croce bruciata nel giardino. Ma il peggio lo riservarono le istituzioni e le forze di polizia, nello specifico l'FBI che fece passare Viola per una poco di buono, una tossicodipendente, un'adultera. Tutte accuse che verranno cancellate col tempo. Ciò che rimase, di Viola, fu la sua eredità spirituale, raccolta dai figli e dal movimento tutto. "Quando crescerete", dirà Lilleboe al suo fratello più piccolo, Tony "capirai quello che ha fatto tua madre".
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Nel caos successivo all’8 settembre 1943 una dura sorte toccò ai militari italiani di stanza in Grecia e nelle isole. Alcuni si diedero alla macchia, in alcuni casi tornando a casa e contribuendo a formare le forze partigiane. Molti furono massacrati, come nel caso di Cefalonia. Una gran parte venne catturata e inviata in Germania, internati come i prigionieri delle nazioni che combattevano l’Asse. Per gli altri internati gli italiani erano e restavano dei fascisti, e questa considerazione determinò molte delle dinamiche tra gli stessi e gli altri prigionieri. Ma il trattamento peggiore era ovviamente quello che era loro riservato da parte delle SS e delle guardie dei campi. L’odio per gli ex alleati si trasformò in torture, maltrattamenti e anche uccisioni; il numero totale degli internati militari italiani pare fosse intorno alle 600mila unità. La testimonianza che riportiamo adesso viene dal Fondo Giulio Baraldini. “Il compagno ingegnere portava gli occhiali molto spessi, risultando assai miope, e sapeva che gli sarebbero stati indispensabili anche per la sopravvivenza. Accadde che un giorno stava più male del solito e fece capire a un Kapò che non era in grado di rendere sottoponendosi ad un lavoro duro, e chiese di farne un altro meno gravoso. Il Kapo gli sorrise in faccia e gli affibbiò due schiaffi che gli fecero cadere gli occhiali. Quando si chinò per raccoglierli dovette subire la sua viltà con dei calci, restando a terra. Non essendo in grado di riprendersi, il Kapò ordinò a due di noi di rialzarlo, e colpì di proposito, con il bastone, gli occhiali rompendone una lente, e deformò una montatura. I compagni raccolsero ugualmente ciò che era rimasto e li dettero al poveretto che piangeva dal dolore e dal dispiacere. Fu mandato di nuovo sul lavoro con il compito di versare l’acqua durante l’impasto delle gettate di cemento che facevamo. Per qualche giorno ebbe quell’incarico adoperando gli occhiali così menomati. [...]. In questa condizione aberrante, un altro Kapò lo maltrattò, facendolo cadere a terra, e questa vorsa perse gli occhiali che furono ancora calpestati con disprezzo. Questo gesto gli dette il colpo di grazia. Non ci vedeva affatto, perciò era sballottato nel buio della cecità. Passò una guardia SS per il solito controllo e, vedendolo fermo a terra, gli diede dei calci [...]. L’ingegnere non si mosse più”. Cronache Ribelli Da poco è uscito il nostro libro "Mio nonno diceva sempre di no. La storia di un internato militare che rifiutò la R.S.I.". Disponibile qui: https://bit.ly/4bj5CxE
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Per quanto la violenza fisica provochi orrore, non bisogna sottovalutare l'impatto della violenza culturale spesso esercitata da un popolo verso un altro. La sottomissione che dev'essere non solo di tipo politico-militare ed economico ma anche - appunto - culturale. La distruzione dell'identità passa attraverso l'annientamento di una lingua, di una religione, di uno stile di vita. Proprio per questo furono create, in Canada, le "Residential Schools", ovvero un sistema di istruzione creato per rieducare i figli degli indigeni canadesi ad uno stile di vita occidentale. Rieducare è, in effetti, un termine molto morbido. I bambini venivano sottratti alle loro famiglie in maniera coatta. Venivano praticamente rapiti. I numeri sono impressionanti: pare che il 30% dei nativi canadesi sia stato educato in una Residential School, ovvero circa 150.000 bambini. E di questi, 6.000 sono morti mentre frequentavano una di queste scuole. Le violenze, sia fisiche che sessuali, erano all'ordine del giorno, con una disciplina ferrea che non aveva pari. Per chi gestiva gli istituti, il fine era quasi nobile: salvare le anime dei poveri fanciulli che, altrimenti, sarebbero stati dannati in eterno in quanto selvaggi. Molte delle scuole, infatti, erano gestite dalla Chiesa. Le condizioni igieniche erano spesso precarie e, ancora peggio, l'assistenza sanitaria era praticamente inesistente. Ed è semplicemente agghiacciante pensare che, se le Residential Schools vennero create nella seconda metà dell'Ottocento, l'ultima chiuse soltanto nel 1996. Nel corso degli ultimi decenni le scuole vennero private di molti dei fondi statali. Per colmare i deficit di personale, molte scuole iniziarono a mettere i loro studenti ai lavori forzati. Negli ultimi anni il governo canadese e la Chiesa hanno spesso chiesto scusa per i fatti commessi all'interno delle Residential Schools. Ma era ormai troppo tardi per rimediare alla cancellazione di intere lingue, culture e popoli.
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“La costituzione voi lo sapete, vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista, eppure il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della RSI ordiva fucilazioni e ordiva spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale. A Milano….” Mentre il sindacalista Franco Castrezzati sta parlando, il 28 maggio 1974, sul palco di piazza della Loggia, si sente un botto enorme. A Brescia è scoppiata una bomba: il suo obiettivo sono dei manifestanti antifascisti. Brescia nel 1974 vive un clima particolarmente difficile. Sono all’ordine del giorno le aggressioni nei confronti di militanti di partiti e associazioni democratici e di sinistra, le sedi dei sindacati sono oggetto di attacchi dinamitardi, intellettuali e personaggi di cultura ricevono minacce dirette, tutto mentre le concentrazioni di potere economico locale si rifiutano di accettare le più elementari rivendicazioni dei lavoratori. Ad aumentare in maniera esponenziale la tensione in città sono una serie di atti eversivi di natura dinamitarda e di chiara matrice neofascista. Il più grave è quello che vede coinvolto Silvio Ferrari, giovanissimo esponente di estrema destra, che muore dilaniato dallo scoppio della bomba che stava aspettando di piazzare. Di fronte a quest’ultimo atto Il Comitato Unitario Permanente Antifascista decide di indire quella manifestazione che si concluderà a Piazza della Loggia. 28 maggio, ore dieci. Nonostante il freddo e la pioggia, incredibili per quei giorni di maggio, la piazza è piena di gente. Ci sono le bandiere dei partiti, i soggetti extraparlamentari, le sigle sindacali. Ma soprattutto ci sono cittadini comuni di diversi orientamenti politici e culturali, tutti uniti nella volontà di dire basta alle violenze fasciste. E quella bomba che esplode alle 10,12 uccidendo otto persone, di cui due dopo una lunga e dolorosissima agonia, è diretta proprio contro quella gente. Contro quella gente di Brescia che vuole essere un argine al fascismo che sta tornando, che porta in piazza sentimenti di rifiuto totale dei nuovi e dei vecchi fantasmi. Franco Castrezzati in seguito dirà. “C’è chi dimostra stupore per i fatti di piazza della Loggia. Ma di questo io non mi rendo conto. Io capisco il raccapriccio, il dolore, la rabbia. Non capisco lo stupore, perché il fascismo è violenza, il fascismo si è imposto, è nato con la violenza , è vissuto nella violenza, è tramontato nella violenza e ora cerca di risorgere nella violenza.” Parole limpide che tuttavia a distanza di quarant’anni, di altre bombe, aggressioni, e omicidi di chiara matrice ben pochi sarebbero disposti a pronunciare. Cronache Ribelli
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Dona il tuo 5x1000 a Cronache Ribelli. Siamo una realtà divulgativa ed editoriale indipendente che dal 2016 ha deciso di raccontare le storie e le lotte delle classi subalterne, dei gruppi emarginati, delle soggettività oppresse. Da allora il nostro lavoro si regge su tre pilastri: ▪️ non abbiamo mai ricevuto fondi pubblici o erogazioni liberali da enti privati ma finanziamo questo progetto solo attraverso la vendita dei nostri materiali; ▪️ abbiamo scelto di rifiutare le logiche della distribuzione editoriale che stritola gli editori minori e i piccoli librai, sfrutta i lavoratori del settore e ha un serio impatto ambientale: pur non vendendo nei grandi store online e nelle catene abbiamo fatto circolare oltre 30.000 libri. ▪️ siamo una realtà orizzontale e priva di gerarchie: restiamo un collettivo nel quale le decisioni vengono prese sempre collettivamente e tutti coloro con cui collaboriamo lavorano in piena autonomia. Codice fiscale 03643460540
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Jean Wehener aveva un ricordo sfocato che la tormentava legato al tempo trascorso in quella scuola di Baltimora. Era anche passato tanto tempo. Siamo agli inizi degli anni ‘90 e lei aveva frequentato la Western High School verso la fine degli anni ‘60. Servì uno psicologo per aiutarla a fare chiarezza nella sua mente. Ma ora era tutto più chiaro. Ricordava quei volti e quei nomi. Ricordava padre Joseph e padre Neil. E ricordava suor Catherine. insieme al suo sorriso. Tutti volevano bene a Suor Cathy, quella giovanissima suora di 26 anni. Ricordava le sue lezioni, le conversazioni, le domande che le pose quando vide in lei qualcosa che non andava. E ricordava padre Joseph che le mostrò il corpo di suor Catherine: "questa è la fine che fa chi parla male degli altri", le disse. Da allora, il buio. Lo stesso buio nel quale brancolava la polizia che non arrivò mai a trovare un responsabile per la morte della suora, ritrovata semi-congelata fuori città il 3 gennaio del 1970. Oltre vent'anni dopo saranno proprio i ricordi di Jean a permettere di riaprire il caso e dare un volto ai colpevoli dell'omicidio, oltre a svelare una rete di abusi ai danni delle ragazze che frequentavano la scuola. Un orrore che suor Catherine scoprì anche grazie alla fiducia delle sue studentesse e che le costò la vita perché aveva affrontato padre Joseph e aveva provato a denunciare il tutto alla polizia. Ma Joseph era il cappellano della polizia, e suo fratello un poliziotto considerato un eroe. La denuncia finì quindi nel dimenticatoio. Le indagini ripresero, come detto, dopo le rivelazioni di Jane, ma padre Magnus era morto nel 1988, mentre padre Joseph venne destituito dalla Chiesa ma morì comunque pochi anni dopo, nel 2001. Ancora oggi non si è fatta chiarezza sui responsabili, nonostante la vicenda sia tornata al centro dell'attenzione grazie ad una serie di film-documentari chiamata "The Keepers". A 50 anni dall'omicidio, suor Cathy e le ragazze della Western School attendono ancora giustizia. Abbiamo raccontato la storia di Suor Catherine anche in Cronache Ribelli vol. 2. Trovate i tre volumi nell'Antologia di Cronache Ribelli cliccando qui: https://bit.ly/4atNboQ
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Antologia di Cronache Ribelli (Vol. 1 + Vol. 2 + Vol. 3)

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Nella foto, scattata dal corrispondente di guerra Thomas Billhardt, l'aviere statunitense Dewey Waddell e la sua carceriera. Il pilota, abbatuto nel 1967, rimase prigioniero dei nord-vietnamiti fino al 1973. Il trattamento che il Vietnam del Nord riservò ai militari americani catturati dentro i suoi confini fu piuttosto duro. Il Paese infatti dichiarò a più riprese che i prigionieri americani catturati in Vietnam del Nord erano criminali di guerra, che combattevano un conflitto non dichiarato e pertanto illegale. Come tali non potevano godere dei diritti concessi ai soldati catturati secondo la convenzione di Ginevra. Quando a Parigi il 27 gennaio del 1973 i rappresentanti americani e vietnamiti firmarono gli accordi per la cessazione delle ostilità, cominciò l'operazione "Homecoming". 591 prigionieri di guerra americani tornarono a casa sui 2.000 che erano stati catturati nel corso della guerra. Gli altri erano deceduti durante la prigionia. Questa foto comunque ebbe una vasta eco propagandistica poiché fece vedere che una piccola donna vietnamita, che magari prima era stata una normale contadina, poteva tenere imprigionato un aviatore appartenente a uno degli eserciti più forti del mondo.
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Per la prima volta pubblichiamo in Italia alcuni discorsi, articoli e interventi di Rosa Luxemburg relativi al periodo 1914-1918, che abbiamo raccolto sotto il titolo “O guerra o rivoluzione”. Si tratta di scritti profondamente attuali non soltanto perché l’Europa e il mondo si trovano di nuovo in una fase di conflitto sempre più esteso, ma soprattutto poiché le masse contemporanee sono schiacchiacciate da sistemi di propaganda che impediscono loro di produrre una posizione autonoma rispetto agli interessi delle oligarchie economiche, militari e politiche di ogni latitudine. Speriamo che, leggendo questo libro, i nipoti di quei lavoratori, di quelle donne, di quei giovani a cui Rosa si rivolge possano riflettere su parole come queste e diventare protagonisti della fase che purtroppo ci troveremo a vivere. “Noi nelle assemblee istruiamo le masse e diciamo loro: commettete un crimine contro voi stessi se continuate a permettere che i popoli si scannino a vicenda. Noi confidiamo che il cuore dell'operaio, una volta conquistato dagli ideali della fratellanza tra le nazioni, non abbandonerà mai più i nostri ideali, neppure se sarà avvolto nel pastrano del re. E speriamo che prima o poi arrivi, che debba arrivare, il momento in cui diremo: no, non lo faremo.” Da oggi “O guerra o rivoluzione” è in prevendita sul nostro sito a prezzo scontato. Lo trovate qui: https://bit.ly/4elClo0
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Rosa Luxemburg - O guerra o rivoluzione, scritti e discorsi 1914-1918

***SPEDIZIONI A PARTIRE DAL 28 GIUGNO***  "Quando l'umanità, il diritto, la cultura e la consuetudine non si avvolgeranno come nastri di seta attorno ai fendenti assassini dei cannoni, ma metteranno a tacere i cannoni con la loro potente parola: solo allora la pace sarà veramente garantita." Gli scritti contenuti in qu

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Giuseppe Valarioti, nato il 1° marzo 1950 a Rosarno, era un giovane come tanti, figlio di quegli agricoltori che coltivano e raccolgono, col sudore della fronte, gli agrumi della Piana di Gioia Tauro. Giuseppe veniva da una famiglia cattolica, ma era cresciuto guardando le ingiustizie che colpivano i lavoratori. Fu una scelta non scontata quella di iscriversi al PCI. Lo fece proprio per difendere quei contadini che erano costretti a lavorare sotto il giogo della ‘ndrangheta che aveva il monopolio completo sugli agrumeti della zona. Accanto alla militanza Giuseppe porta avanti gli studi all’Università di Messina, l’insegnamento di storia e filosofia nel liceo di Rosarno e lo studio della Magna Grecia e dell’antica città di Medma. Crea inoltre una cooperativa agricola, Rinascita, che spezza il monopolio ‘ndranghetista nel settore. Fino alle elezioni provinciali e regionali del 1980, dove Valarioti non si candida ma lavora instancabilmente per il PCI e per l’elezione del suo amico omonimo Peppino Lavorato. I comizi si alternano con le auto bruciate e le minacce che culmineranno nella gioia di una vittoria inaspettata. Una gioia squarciata da due colpi di fucile nella notte. A terra verrà ritrovato il corpo di Giuseppe, il primo a soccorrerlo sarà proprio l’amico Peppino, ma non c’è nulla da fare. Valarioti muore l’11 giugno del 1980 a soli trent’anni anni. Sarà il primo omicidio “politico” della ‘ndrangheta in Calabria. Nei giorni seguenti, si sentono le solite storie: “Ma quali mafia, è stata na storia i fimmini”; “nu c’è a ‘ndranghita a Rosarno”. Opinioni discutibili ma avallate anche dalla giustizia che, quarant’anni anni dopo, non ha ancora trovato un responsabile per la morte di Giuseppe. I primi indiziati sono stati i Pesce, tra le ‘ndrine più potenti del territorio, nella fattispecie Giuseppe Pesce. Il risultato: assoluzione con formula piena. Poi arriverà la confessione di un pentito, Pino Scriva, che accusa i Pesce ed i Piromalli dell’uccisione di Valarioti per motivi politici e legati alla cooperativa. Niente. A nessuno importa la dichiarazione di Scriva. Non viene aperto un nuovo processo, le sue parole non vengono neanche utilizzate nell’appello del processo ai Pesce: nuova assoluzione. Muore due volte, Giuseppe Valarioti, ma rimane viva la sua eredità ed il concetto che la lotta alla ‘ndrangheta è anche la lotta di tutti i lavoratori. Cronache Ribelli La storia di Giuseppe è raccontata anche in "Disonorate società", il nostro libro sulla mafia e soprattutto sull'antimafia sociale. Lo trovate qui: https://bit.ly/449Rwfy
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Disonorate società - Introduzione alle mafie e storie di antimafia

Troppo spesso il racconto delle mafie si spacca tra il fascino delle azioni criminali e l'eroismo delle reazioni istituzionali, lasciando alla "gente comune" il ruolo ambiguo di vittima del sistema. Nel libro si rifiuta questa logica binaria che riflette un più ampio sistema sociale, politico ed economico predatorio, c

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Non furono solo le botte, le sprangate ed infine le coltellate ad uccidere Giacomo Matteotti. Fu quel sistema marcio che prendeva il nome di fascismo. Un sistema che si reggeva sullo sfruttamento dei lavoratori italiani, sul sostegno dei grandi capitali nazionali, sul finanziamento di latifondisti e industriali. Un sistema in cui la corruzione, il dossieraggio, i ricatti, i brogli erano eretti a monumento civile e strumento quotidiano dell'agire politico. Quando Giacomo Matteotti venne rapito ed ucciso da Amerigo Dumini, già picchiatore e assassino, stava infatti sia per pronunciare l'ennesimo discorso contro i brogli elettorali e le violenze fasciste, sia per denunciare il malaffare e la corruzione che il nascente regime si stava impegnando a diffondere in tutto il Paese. In particolare il deputato socialista avrebbe denunciato il pagamento di cospicue tangenti che la compagnia Sinclair Oil avrebbe pagato ad esponenti fascisti, tra cui il fratello del Duce, Arnaldo, per ottenere lo sfruttamento esclusivo dei potenziali giacimenti fossili presenti in Emilia e Sicilia. Che l'omicidio, come riportano alcune fonti, sia avvenuto per volontà diretta dello stesso Duce oppure sia stata un'azione autonoma di alcune camicie nere, non è ancora chiarito perfettamente. Sul piano storico il fatto va approfondito, su quello politico cambia poco: il fascismo ha ucciso Matteotti perché rappresentava un pericolo per la sua stabilità. Il deputato infatti avrebbe mostrato a tutti come il regime, ben lungi dal difendere gli irreali interessi di tutti, difendeva i privilegi dei ceti apicali italiani e al tempo stesso svendeva risorse "nazionali" in cambio di tangenti. Chiudiamo quindi con le parole dello stesso Matteotti, che bene aveva inquadrato il ruolo del fascismo nel dopoguerra. "L'economia e la finanza italiana nel loro complesso hanno continuato quel miglioramento e quella lenta ricostruzione delle devastazioni della guerra, che erano già cominciati ed avviati negli anni precedenti; ma ad opera di energie sane del paese, non per gli eccessi o le stravaganze della dominazione fascista; alla quale una sola cosa è certamente dovuta: che i profitti della speculazione e del capitalismo sono aumentati di tanto, di quanto sono diminuiti i compensi e le più piccole risorse della classe lavoratrice e dei ceti intermedi, che hanno perduta insieme ogni libertà e dignità di cittadini".
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