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I Maestri del Socialismo

Formazione e informazione politica, storica e filosofica per un canale gestito da Alessandro Pascale.

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L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approva senza riserve la repressione, definendo la rivolta un «complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer». Tale giudizio, pur avendo un fondo di verità e risultando aderente alla logica di non cedere di un millimetro di fronte alla propaganda nemica, sia impreciso. Che ci siano stati interventi e strumentalizzazioni dell'imperialismo occidentale è fuor di dubbio, ma causa altrettanto importante è stata l'erroneità delle decisioni prese dalla SED, probabilmente suggerita male (volutamente?) da organismi politici non adeguati a Mosca. Secondo lo storico Gossweiler, l'erroneità della modalità di procedere è dovuta alla crisi in cui era piombata la direzione del PCUS dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), con la lotta interna iniziata tra i revisionisti Chruščev e Mikojan da una parte e quelli (Molotov, Malenkov, Berija, Bulganin, ecc.) che verranno da questi bollati come “stalinisti” (in realtà marxisti-leninisti) dall'altra. Gossweiler non esclude che tale gestione, evidentemente inadeguata, sia stata volutamente favorita e suggerita da Mosca da esponenti interessati ad ottenere un cambio al vertice della SED, riuscendo così a sostituire il marxista-leninista Walter Ulbricht con una dirigenza più affine al “nuovo corso” chruščeviano. Si ricordi infine la posizione di Bertolt Brecht sulla questione. In una lunga lettera indirizzata all’editore Peter Suhrkamp, Brecht spiegò quanto i lavoratori fossero giustamente amareggiati. «Eppure – egli scrive – anche nelle prime ore del 17 giugno le strade presentavano un grottesco insieme di lavoratori non solo uniti alla gioventù più degradata… ma anche a figure rozze e grossolane appartenenti all’era nazista, il prodotto locale, gente che per anni mancava di una banda, ma che era rimasta lì tutto quel tempo». Quando la rivolta operaia di Berlino fu repressa dai carri armati sovietici, Brecht scrisse al presidente della Germania Orientale Ulbricht per congratularsi e per rinnovargli il suo apprezzamento al regime comunista tedesco: «Elementi fascisti sobillati dall’Occidente – annotò l’intellettuale – hanno cercato di sfruttare l’insoddisfazione del popolo tedesco (lapsus che indurrebbe a pensare che proprio il popolo tedesco orientale non dovesse spassarsela troppo sotto il regime comunista) per perseguire i loro subdoli e sanguinari propositi... Ma grazie al rapido e puntuale intervento delle truppe sovietiche questo tentativo è stato vanificato... Ovviamente, le forze armate russe non se la sono presa con gli operai, ma contro la marmaglia fascista e guerrafondaia composta da giovani diseredati di ogni risma che aveva invaso Berlino». Brecht conosceva bene la differenza tra ribelle e rivoluzionario e che non ogni rivolta fosse da appoggiare ma solo quelle che fossero utili all'avanzamento sociale complessivo per la costruzione del socialismo. Giudicò evidentemente quelle rivolte infiltrate e sobillate da elementi reazionari, e come tali da condannare. Ben fatto compagno Brecht! [Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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IL TENTATO GOLPE DEL 17 GIUGNO 1953 Sui moti di Berlino del 1953 leggiamo quanto scrivono Aldo Bernardini e Adriana Chiaia: «I moti di protesta e gli scioperi che ebbero luogo il 17 giugno 1953 a Berlino e in altre località della RDT (tra i primi lo sciopero degli operai e dei cantieri di costruzione della Stalinallee) furono la risposta ai provvedimenti, decisi dalla SED (Partito di Unità Socialista di Germania) e dal governo, che comportavano l'aumento generalizzato dei prezzi dei beni di consumo indispensabili, l'esclusione di ampie categorie di cittadini dalla possibilità di approvvigionarsi a prezzi contenuti di beni alimentari ed inoltre il peggioramento delle norme e dei tempi di lavoro per gli operai. Nelle manifestazioni spontanee, volte ad ottenere il ritiro di simili provvedimenti, si insinuò l'attacco sovversivo delle potenze imperialiste occidentali allo scopo di abbattere il governo del primo Stato socialista in Germania. Risultarono subito evidenti l'intento di trasformare ogni sciopero rivendicativo ed ogni manifestazione sindacale operaia in insurrezione contro il governo e il carattere organizzato e premeditato dell'intervento pilotato dall'esterno. La presenza attiva di noti nazisti e di provocatori mercenari provenienti da Berlino Ovest, che mettevano in bocca ai dimostranti parole d'ordine come: “elezioni libere, libertà per tutti i partiti, liberazione dei prigionieri politici (nazisti condannati per crimini di guerra)” e slogan antisovietici, è ampiamente provata perfino dalle testimonianze insospettabili di giornali occidentali (compresi quelli anticomunisti). La rivolta fu repressa in breve tempo dall'intervento militare delle forze sovietiche ed in alcune situazioni dagli stessi operai che si opposero alle devastazioni istigate dai provocatori. Per individuare la causa primaria delle misure peggiorative delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione, che il partito ed il governo della RDT erano stati costretti ad emanare, bisogna risalire al netto rifiuto delle potenze occidentali di accettare la soluzione, proposta da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale, dell'unificazione di una Germania neutrale e smilitarizzata. Il successivo riarmo della Germania occidentale e la sua integrazione nel sistema militare europeo, avevano imposto alla classe dirigente della RDT la decisione di accelerare il processo di socializzazione dell'economia e di far fronte alle spese militari che la nuova situazione comportava. Tuttavia la congiuntura non giustificava la pessima e contraddittoria gestione dall'alto delle pur necessarie misure economiche che ne derivavano. Esse, emanate non senza l'obbligata consultazione con la Commissione di controllo sovietica, presente sul territorio della Germania Est, furono successivamente bruscamente revocate dopo la rivolta (tranne quelle concernenti le condizioni e i ritmi di lavoro nelle fabbriche) per espresso ordine di Mosca. In entrambi i casi furono decisioni imposte senza una adeguata consultazione e discussione nelle istanze di base del partito, del sindacato e delle organizzazioni di massa. Questo stile di lavoro, non poteva che minare la fiducia della classe operaia e di vasti strati della popolazione nei confronti del partito e fomentare il rifiuto di qualsiasi provvedimento, anche se giustificato. I dirigenti della SED affrontarono la situazione critica con una riflessione e un dibattito interno sulle cause degli eventi, ma resistettero alle pressioni interne (minoritarie) ed esterne (sovietiche) non aprendo a soluzioni revisionistiche, come sarebbe accaduto in Polonia e in Ungheria nel 1956, bensì riaffermando i principi e la prassi della politica e dell'economia socialiste».
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«Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo Stato e dalla parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “Non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il Paese”. O tutto, o niente». Una recensione del lavoro di Sidoli, Burgio e Leoni a cura di Pietro Terzan. https://intellettualecollettivo.it/il-fattore-malvinas/
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«Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo Stato e dalla parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “Non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il Paese”. O tutto, o niente». Una recensione del lavoro di Sidoli, Burgio e Leoni a cura di Pietro Terzan. https://intellettualecollettivo.it/il-fattore-malvinas/
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Per lo storico e partigiano Marc Bloch, nome di battaglia "Narbonne" (6 luglio 1886 - 16 giugno 1944) "Ma adesso il compito più urgente è di raccogliere i materiali. È tempo di aprire un'inchiesta seria sulle false notizie di guerra, perché i quattro anni terribili già si allontanano verso il passato e, prima di quanto si creda, le generazioni che li hanno vissuti cominceranno lentamente a sparire. Chiunque ha potuto e saputo vedere deve sin da ora raccogliere i suoi appunti o mettere per iscritto i suoi ricordi. Soprattutto non lasciamo il compito di svolgere queste ricerche a uomini del tutto impreparati al lavoro storico. In questa materia, le osservazioni veramente preziose sono quelle che vengono da persone abituate ai metodi critici e a studiare problemi sociali. La guerra, come ho detto sopra, è stato un immenso esperimento di psicologia sociale. Consolarsi dei suoi orrori rallegrandosi del suo interesse sperimentale significherebbe mostrare un dilettantismo di cattivo gusto. Ma, poiché essa ha avuto luogo, è opportuno utilizzarne gli insegnamenti al meglio della nostra scienza. Affrettiamoci a trarre profitto da un'occasione, che dobbiamo sperare unica". (M. Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921)
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VALENTINA TERESHKOVA, LA PRIMA DONNA NELLO SPAZIO Manifesto Sovietico: «Onore alla prima donna cosmonauta!» Il 19 giugno del 1963 torna a terra la cosmonauta Valentina Tereškova. A bordo della capsula Vostok 6 ha compiuto 48 orbite intorno al nostro pianeta ed è rimasta nello spazio per 3 giorni. Era partita il 16 di giugno: quel giorno, alle 14.00 (ora di Mosca) la televisione sovietica annuncia che una nuova capsula si aggiunge alla Vostok 5 di Bykovskij lanciata due giorni prima. A pilotarla è una cosmonauta di nome Valentina, la prima donna a volare nello spazio. Il primo ministro Chruščev riporta così la sua ennesima vittoria propagandistica sugli Stati Uniti: il viso di brava ragazza e l'impresa spaziale di Valentina Tereškova diventano i simboli dell'emancipazione, dell'auto-determinazione e del coraggio delle donne sovietiche. Valentina Tereškova (nata a Bol'šoe Maslennikovo il 6 marzo 1937) è il ritratto della donna sovietica ideale: -figlia di proletari: il padre è un carrista caduto durante la seconda guerra mondiale; -operaia: da giovane lavora in una fabbrica produttrice di pneumatici e successivamente in un'azienda produttrice di fili; per sette anni svolge la professione di sarta e stiratrice all'interno di quest'azienda; -studentessa-operaia: ha frequentato corsi serali per diventare tecnica, diploma che consegue nel 1960; -compagna: iscritta al Komsomol, la sezione giovanile del partito comunista, tant'è che anche dopo il successo planetario ottenuto con il viaggio nello spazio la compagna Tereškova realizza una splendida carriera politica: a maggio del 1966 viene eletta a far parte dell'Alto Soviet dell'Unione Sovietica e a maggio del 1968 diventa presidente del comitato donne dell'Unione Sovietica. Nel 1971 diventa membro del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. A partire dal 1974 fa parte del direttivo del Soviet Supremo e dal 1976 in poi vicepresidente della commissione per l'educazione, la scienza e la cultura dell'Unione Sovietica. Come è riuscita a diventare una cosmonauta? A partire dal 1955, pur lavorando come operaia, Tereškova diventa un'appassionata paracadutista. Grande ammiratrice di Jurij Gagarin si candida più volte per frequentare la scuola per aspiranti cosmonauti. Nel 1962 riesce a partecipare all'esame di assunzione per il primo gruppo di donne cosmonaute; supera con merito l'esame insieme ad altre quattro candidate (Žana Jerkina, Tatiana Kuznecova, Valentina Ponomareva e Irina Soloveva) e inizia così il suo addestramento. È l'unica delle cinque donne ad andare nello spazio. Quando realizza l'impresa ha solo 27 anni. Da segnalare che una nuova missione femminile vede protagonista Svetlana Savitskaya nel 1982; ed è lei, spedita nuovamente in missione insieme con due compagni a bordo del Sojuz T12, ad effettuare anche la prima “passeggiata fuoribordo” di una donna nello spazio, il 17 luglio 1984. La medesima astronauta è anche la prima donna a compiere due voli spaziali. Infine, un vero record di resistenza fisica e psichica è quello di Yelena Kondakova, che ha trascorso ben 169 giorni a bordo di una Sojuz TM-17. Il primo viaggio di una cosmonauta statunitense su uno shuttle (Sally Ride), avviene invece solo nel 1983. Per inciso negli USA già nel 1960 ben tredici donne superano gli stessi test dei colleghi uomini della missione Mercury 7, eguagliandone i risultati nelle prove fisiche e superandoli in quelle psicologiche. Ma le americane del gruppo “Mercury 13” non avrebbero mai volato nello spazio: sconfitti per la terza volta nella corsa per lo spazio, gli USA interrompono i test e chiudoo il programma “Mercury 13” per dirottare tutte le energie sulla sfida della conquista della Luna. Sono stati recentemente svelati alcuni retroscena di questo fallimento del “Mercury 13”, che non è solo conseguenza della tempestività dell'URSS, ma anche di pregiudizi e giochi di potere all'interno della comunità scientifica e della stessa NASA.
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Tale rivendicazione territoriale assume peraltro anche l’aspetto di una politica di sicurezza per controllare un territorio da cui in passato sono già partiti gli aerei statunitensi per bombardare città cinesi. Riguardo all’assetto interno il PCC in 40 anni ha tolto 800 milioni dalla povertà, il cui flagello oggi non esiste più nel Paese. Le condizioni di lavoro e i salari continuano a crescere e a migliorare, così come i processi di democratizzazione e sindacalizzazione. I cinesi continuano ad affermare chiaramente di essere nella prima fase di costruzione di una società socialista, sono consapevoli delle contraddizioni e delle problematiche interne derivanti dal mantenimento di un sistema di mercato e dalla permanenza di rapporti di produzione capitalistici, ma mantengono un ancor più forte settore pubblico che comprende alcuni delle aziende più potenti del mondo. In Cina più che in Russia è rimasto un punto centrale il monopolio statale su tutta una serie di settori industriali ed economici giudicati strategici per lo sviluppo del Paese. Il nostro giudizio, come Resistenza Popolare, è quindi chiaro e netto: né la Russia né tantomeno la Cina oggi sono equiparabili a potenze imperialiste, anzi la loro alleanza costituisce oggi il perno più saldo di un vasto fronte antimperialista internazionale che comprende interi Stati, popoli e organizzazioni. Riteniamo quindi che sia interesse del popolo italiano, e più in generale delle classi proletarie di questo Paese, che l’Italia muti il proprio posizionamento internazionale ponendo termine alla propria adesione al criminale imperialismo occidentale che oggi minaccia la deflagrazione della terza guerra mondiale. Se vuole un futuro degno del suo passato l’Italia deve uscire dalla NATO e dall’UE e riallacciare relazioni diplomatiche ed economiche avanzate con Russia, Cina, e tutti i Paesi del mondo che stanno lavorando ad un nuovo mondo multipolare, più giusto ed equo. [Video e testo completi su https://intellettualecollettivo.it/perche-cina-e-russia-non-sono-paesi-imperialisti/. Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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PERCHÉ CINA E RUSSIA NON SONO PAESI IMPERIALISTI La sezione milanese di Resistenza Popolare, assieme a Miracolo a Milano e alle sezioni locali di Patria Socialista e del Partito dei CARC, ha deciso di organizzare un dibattito pubblico sulle questioni internazionali invitando gli organizzatori e una serie di ospiti scelti, tra cui il giornalista Evgeny Utkin, a rispondere alla domanda chiave: “Russia e Cina sono Paesi imperialisti?” Il tema è dirimente: nella fase attuale, in cui molti hanno acquisito consapevolezza dell’inciviltà capitalistica occidentale, si tratta di capire se Russia e Cina, perni essenziali dei BRICS, corrispondano a quelle dittature terrificanti ritratte dai media “liberali” oppure se non siano addirittura modelli alternativi al nostro da cui imparare e da appoggiare, ed eventualmente con quali prospettive e limiti. Il presupposto comune delle forze che promuovono questo incontro è certamente la constatazione dell’esistenza di un imperialismo occidentale che fa perno sulle organizzazioni della NATO e dell’UE. Si tratta di capire se il movimento antimperialista italiano, e più in generale occidentale, possa trovare un alleato in Russia e Cina, e se questa alleanza sia motivata da ragioni tattiche e/o strategiche. Siamo tutti d’accordo infatti che in una contrapposizione tra “opposti imperialismi” il proletariato mondiale non ha interesse ad appoggiarsi su alcuna forza in campo, ma solo l’obbligo morale di rafforzare le proprie organizzazioni. Una proposta politica credibile per il popolo italiano passa necessariamente da un’analisi adeguata delle questioni internazionali, sviscerando le forze in campo nel proprio campo ed in quello “avverso”. Nonostante rapporti storici plurisecolari di collaborazione tra le civiltà italiane, russe e cinesi, il totalitarismo “liberale” promuove oggi a piene mani narrazioni russofobe e sinofobe, descrivendo questi due Paesi come due regimi autoritari, dittatoriali, se non addirittura totalitari. Una parte importante nel movimento comunista occidentale, ed in proporzione molto più ampia nei settori più genericamente antifascisti e anticapitalisti, accetta perfino la definizione di paesi fascisti e imperialisti. Partendo da tali equivoci si può arrivare a posizionamenti assurdi come quello preso in questi giorni da Lotta Comunista, i cui militanti sono arrivati alle mani con militanti filopalestinesi. La tesi di fondo che caratterizza questa organizzazione è quella degli “opposti imperialismi”, fatta propria anche da altri partiti che partono da basi analitiche trockijste, bordighiste, anarchiche, talvolta perfino leniniste e maoiste, che tendono a ripetere schematicamente e meccanicamente certe analisi, destoricizzandole, contribuendo ad approfondire la crisi analitica del cosiddetto marxismo occidentale, incapace da almeno mezzo secolo di adattare le categorie della lotta di classe all’arena delle relazioni internazionali e della cosiddetta “geopolitica”. Spesso si fa confusione tra l’accezione liberale dell’imperialismo, che si sofferma sul dominio politico-militare, e l’accezione marxista dell’imperialismo, per cui il dominio politico-militare è lo sviluppo di un dominio economico (quel che gli storici borghesi hanno chiamato “neocolonialismo” senza trarne le dovute conseguenze). Nell’analisi leninista i principali contrassegni dell’imperialismo sono in primo luogo la concentrazione della produzione e del capitale, poi la formazione di un’oligarchia finanziaria sulla base del capitale finanziario, l’importanza avuta dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci, la nascita di associazioni monopolistiche internazionali, e infine la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. “L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è incominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i
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La rivoluzione “colorata” in Ucraina inizia non a caso due anni dopo (2013), dopo un’accurata preparazione pianificata da decenni. Ulteriori tentativi di destabilizzazione occidentale si sono verificati in tutti i paesi limitrofi alla Russia, dalla Bielorussia alla Georgia, al Kazakistan, fino al Kirghizistan. La conclusione è che la guerra attuale in Ucraina non è espressione dell’imperialismo, anzi essa è dovuta ad una rivendicazione di sicurezza, oltre che di dignità, autonomia e indipendenza di un popolo e di una nazione, che mantengono una preziosa coscienza politica antimperialista. I russi più di tutti ricordano bene che il fascismo nasce e viene coltivato dalle classi dirigenti borghesi nel momento in cui queste non riescono più a governare con altri mezzi più “liberali”. I dati storici ci dicono che la lotta antifascista e antimperialista di Putin non è propaganda, ma un dato oggettivo. L’elemento di connessione essenziale, con cui passiamo a parlare brevemente della Cina, è dato proprio dall’alleanza organica tra Mosca e Pechino per costruire un nuovo mondo fondato realmente sul diritto internazionale e sul diritto dei popoli aggregati in Stati di autodeterminare se stessi senza dover sottostare ad alcuna forma di imperialismo. Alcuni accusano la Cina di essere non solo un paese capitalista, pieno di multimiliardari, e quindi non un paese socialista, ma addirittura un paese imperialista che sta schiavizzando e colonizzando l’Africa e altri Paesi, oltre che una dittatura che impone un dominio tecnologico sulla propria stessa popolazione. La nostra posizione è che la Cina sia oggi l’avanguardia della lotta antimperialista e del movimento comunista internazionale. Mentre la Russia costituisce un capitalismo di Stato a guida personale (in una sorta di cesarismo progressivo), in Cina il capitalismo di Stato è ancora più forte e controllato dal Partito Comunista Cinese, che con oltre 95 milioni di iscritti è ad oggi l’organizzazione politica più grande del mondo. In Cina non solo l’Economia è controllata dalla Politica, ma la Politica è controllata nella sostanza dalla leadership del Partito Comunista Cinese, che da decenni promuove lo sviluppo delle forze produttive lasciando ampio spazio ai privati (sempre comunque controllati con almeno un membro del Partito in ogni consiglio di amministrazione aziendale), ma promuovendo attivamente con un vasto settore pubblico la cooperazione e lo sviluppo sia dentro che fuori la Cina. L’esportazione di capitali e i prestiti dati ad altri Paesi del mondo sono fatti spesso a condizioni molto più vantaggiose rispetto alla concorrenza occidentale, che fino a quel momento aveva mantenuto con la forza il monopolio neocoloniale. Laddove vigeva lo sfruttamento assoluto dell’imperialismo occidentale la Cina ha portato la possibilità di una collaborazione paritaria, in cui entrambi i contraenti traevano vantaggio attraverso uno scambio tra risorse, merci, know-how e costruzione di infrastrutture. Dall’avvento del mondo unipolare in politica estera la Cina si è opposta coerentemente alle politiche guerrafondaie dell’Occidente, e non ha mai promosso un’avventura bellica fuori dal proprio territorio. L’unica base militare fuori dal proprio Paese è a Gibuti in uno spazio concordato con il governo locale (secondo accordi che riguardano anche altri Paesi), e ha la funzione di garantire i traffici commerciali contro eventuali atti di pirateria corsara. La maggior parte del movimento comunista internazionale, comprese le rappresentanze degli sfruttati africani, sostiene e legittima l’operato progressivo della Cina nello scenario internazionale, e comprende che essa stia costruendo una forma diversa di globalizzazione, più equa, solidale e non predatoria. Le cosiddette “minacce” a Taiwan riguardano un territorio che è storicamente appartenente alla Cina, e che ha costituito dal 1949 in poi un avamposto dell’imperialismo occidentale, che ha supportato il regime nazionalista di Chiang Kai-shek sconfitto sul continente.
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più grandi paesi capitalistici”. Quando Lenin elabora queste definizioni considera un mondo dominato unicamente da paesi borghesi. Nel 1917 la rivoluzione russa spezza l’anello più debole dell’imperialismo internazionale e porta alla nascita della principale potenza antimperialista mondiale. L’Unione Sovietica ha rappresentato fino al 1991 la principale opposizione alla potenza dell’imperialismo, obbligando le grandi potenze capitaliste a coalizzarsi permanentemente, pur in presenza di contraddizioni minori, per proseguire l’asservimento del cosiddetto “terzo mondo”. Almeno dal 1945 si può parlare di un imperialismo occidentale coeso contro il movimento comunista. La caduta dell’URSS nel 1991 ha precipitato la Russia in una condizione semi-coloniale per una decina d’anni, prima di ristabilire un ferreo dominio della politica sull’economia con la presidenza di Putin. Il primo dato per cui si può dubitare che la Russia sia una potenza imperialista sta proprio nel rapporto chiaro tra Politica ed Economia nel Paese. Nonostante la Russia abbia conservato una struttura economica complessivamente capitalistica, occorre ricordare che il Cremlino continua a controllare circa il 40% dell’economia nazionale attraverso un notevole settore industriale pubblico, con il mantenimento del controllo di settori strategici, come quelli delle ferrovie, dell’energia e delle armi. Delle maggiori imprese russe ben 5 sono pubbliche. Nonostante permangano in Russia miliardari e grandi padroni (gli oligarchi), essi non detengono la direzione politica del Paese, che è saldamente in mano ad un uomo proveniente dal KGB che è cresciuto in un Paese socialista. Hanno fatto epoca i video in cui Putin ha umiliato oligarchi che esageravano nello sfruttamento assoluto dei propri lavoratori. D’altronde Putin ha anche permesso gli oligarchi continuassero ad arricchirsi, purché ciò andasse a beneficio complessivo della crescita economica nazionale, e con la clausola che non dovessero intervenire in opposizione alla linea governativa. Putin ha sempre espresso posizioni molto critiche per il comunismo, ma ha riconosciuto a Stalin e all’URSS di aver difeso il Paese dalle grandi provenienti da Occidente. Putin, come la gran parte del popolo russo, ha chiara consapevolezza politica di come sia strutturato e di quale sia stata e sia tuttora la forza dell’imperialismo occidentale, così come permane memoria del nazifascismo, resuscitato dall’Occidente nel 2014 in Ucraina, per destabilizzare uno dei pochi Paesi rimasti neutrali nell’Europa orientale. Non si può negare che Putin goda di un enorme consenso interno nel Paese, e che le elezioni più contestate nella storia liberale recente della Russia siano state quelle del 1996, quando al potere c’era Eltsin. Per quanto ci siano certe rigidità nella gestione dell’ordine pubblico e viga in campo culturale un certo tradizionalismo e una moderazione dei costumi, non si può per questo parlare di fascismo, né imputare alla politica estera russa di essere imperialista. Un’analisi obiettiva della storia degli ultimi 25 anni ci dice chiaramente che la Russia di Putin ha tentato in un primo tempo (anni ’00) di collaborare con il G7 e con Washington per costruire un mondo realmente multipolare. Le guerre in Afghanistan e Iraq, unitamente alla prosecuzione dell’espansione nell’Europa orientale della NATO e dell’UE, e all’emergere di sempre maggiori contraddizioni negli USA durante la grande crisi 2007-08, hanno convinto ben presto Mosca della necessità di costruire un blocco alternativo a quello occidentale, che costituiva sempre più una minaccia esistenziale. Nascono così nel 2009 i BRICS, garantiti dalla rinnovata forza militare russa e dal peso economico cinese. L’aggressione occidentale alla Libia e all’alleata Siria (2011) obbliga la Russia ad intraprendere le prime operazioni militari contro l’Occidente, che ha sostenuto apertamente il terrorismo islamico come arma di destabilizzazione politica anche nella stessa Europa.
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Una chiacchierata con Renato Caputo sulle ragioni della rottura con DSP e con il PC. https://youtu.be/0H_CxljKQ54
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In realtà, io non ero a caccia di un'altra automobile diversa da quella che mi era stata assegnata, ma successe che il nuovo amministratore nominato, era Santiago Riera che conosceva la mia passione per le auto e l'attenzione con la quale curavo quella che stavo utilizzando in quel momento. Il mio amico amministratore un giorno mi telefonò e mi informò dell'esistenza della Jaguar suggerendomi di utilizzarla, poiché secondo lui, per la fabbrica non gli era di nessuna utilità, date le sue caratteristiche tecniche. Insistette adducendo al fatto che ero così diligente che sicuramente nessun altro compagno come me, l’avrebbe conservata così bene. Fu così che caddi nell'errore di accettare il sincero sollecito, per non dire offerta, che mi fece il mio amico amministratore. Portai la Jaguar al Ministero, ed in cambio, così come avevamo convenuto, consegnai al mio amico l’auto che mi aveva assegnato il Che. Dopo un paio di giorni alla guida della potente Jaguar, arrivai come di consueto al Ministero, posteggiai, e quando stavo scendendo dalla macchina, il Che, con la sua modesta Chevrolet del ‘60 arrivò al parcheggio. Il Comandante avanzò verso di me e guardando con disprezzo la Jaguar, mi gridò: “Pappone!”, ripetendo varie volte l’offesa. Dal momento che non capii minimamente, la ragione per la quale mi offendeva in quel modo, gli domandai quale fosse il problema. Allora mi rispose con una certa ironia specchiata in viso: “Tu sì che mi capisci, e ti avverto che ti concedo solamente un'ora per riportare quell'auto dove l’hai presa”. In quel momento mi resi conto dell'errore commesso e ovviamente, restituii immediatamente il controverso Jaguar. Ma, la cosa peggiore di tutte fu che non ebbi la possibilità di recuperare la mia precedente automobile, poiché nella fabbrica di sigarette, ne facevano un appropriato e produttivo utilizzo e questa ragione non ammetteva alcun ritorno nelle mie mani. Cosicché rimasi vari giorni chiedendo l'aiuto di alcuni amici per i miei spostamenti di routine. Continuai a lavorare come se nulla fosse successo, fino a che una mattina il Ministro mi chiamò e mi offrì un'estesa spiegazione sulla ragione del perché mi aveva dato l’ordine di restituire la Jaguar. In buona sostanza mi convinse del fatto che fosse inopportuno che un viceministro del Governo utilizzasse per il suo lavoro un’auto tanto lussuosa. Fu tale l'argomentazione sostenuta dal Che, che non solo mi convinse, ma quell’insegnamento non lo avrei mai più dimenticato. A conclusione del suo ragionamento, totalmente amichevole ed educativo, mi informò che mi aveva assegnato un'auto Chevrolet, esattamente uguale a quella da lui usata, e di chiamare il Ministro dei Trasporti che aveva già ricevuto istruzioni per consegnarmela». Chiudiamo con un altro aneddoto raccontato dallo stesso Fidel Castro, a testimonianza di un legame personale e politico come pochi altri nella Storia: «Vi dirò una caratteristica del Che, una di quelle che io apprezzavo di più tra le tante che apprezzavo molto in lui: tutti i fine settimana cercava di scalare il Popocatepetl, un vulcano che si trova vicino alla capitale messicana. Preparava il suo equipaggiamento – la montagna è alta e coperta di neve perpetua – e iniziava la salita, facendo un enorme sforzo e non raggiungeva mai la cima. L’asma ostacolava il suo tentativo. Ma la settimana successiva cercava di scalare di nuovo il Popo, come lo chiamava e non ci riusciva... ma lo faceva ancora e ancora e avrebbe trascorso tutta la vita cercando di scalare il Popocatepetl, pur non riuscendo mai a conquistarne la cima. Questo rende l’idea della volontà, della sua forza spirituale, della sua costanza che era una tra le sue caratteristiche. Qual’era l’altra? L’altra era che ogni volta che mancava - quando eravamo un gruppo poco numeroso - un volontario per un compito determinato, il primo che si presentava era sempre il Che. Sono molti i ricordi che ci ha lasciato e per questo dico che è uno degli uomini più nobili, più straordinari e più disinteressati che ho mai conosciuto».
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IN MEMORIA DI ERNESTO CHE GUEVARA Nel 96° anniversario della nascita. Per ricordare Ernesto “Che” Guevara de la Serna (Rosario, Argentina, 14 giugno 1928 – Camiri, Bolivia, 9 ottobre 1967), leggiamone l'omaggio che ne è stato dato nel giugno 2017 nel Palazzo del Governo di Bolivia alla presenza del presidente Evo Morales: «Nella sua vita il Che si è distinto per il suo esempio nel trattare con gli altri: era il compagno che sempre agiva come pensava, era il primo sulla linea di combattimento, il primo nel lavoro volontario, espressione genuina dell'“uomo nuovo” emergente in una società emancipata e risultato del processo di trasformazione della società. Il Che Guevara si è caratterizzato per le sue profonde convinzioni antimperialiste. Definì l'imperialismo come una logica di aggressione e saccheggio promossa dai paesi capitalisti più potenti. Un sistema prodotto dallo sfruttamento. Questo imperialismo crudele che ha devastato il Vietnam con migliaia di bombe, che ha affogato nel sangue bambini, uomini e donne, è lo stesso che oggi, sotto qualsiasi pretesto, invade paesi che hanno iniziato a pensare con la propria testa e i cui governi non si sottomettono ai suoi propositi. Questo [...] è l'omaggio di tutti gli uomini e donne che lottano e militano nel campo popolare, nel campo rivoluzionario, in difesa dei diritti e della dignità umana, in difesa della vera libertà, per la solidarietà con tutti i popoli del mondo in lotta per la loro vera indipendenza. Il Che è stato uomo del suo tempo, immerso nei conflitti di quell'epoca, ma è anche stato un uomo di tutti i tempi, che lascia il suo esempio per la costruzione di una nuova umanità. Come disse il filosofo francese Jean Paul Sartre: “Il Che non è stato solo un intellettuale notevole, ma l'essere umano più completo della nostra epoca”. Il Che non è un'immagine del passato, né un mito che bisogna adorare, né una folkloristica maglietta nostalgica per il presente, come alcuni vorrebbero. Lottare per un mondo nuovo, come fece il Che, e conseguire una società di uomini e donne liberi in questa terra americana deve esser la lotta del presente». Alcuni aspetti biografici: laureatosi in medicina, vive per qualche tempo in Messico, dove entra in contatto con Castro e aderisce al suo progetto politico. Dopo la vittoria del movimento castrista è, dal 1959 al 1960, presidente della Banca nazionale cubana, e dal febbraio 1961 ministro dell'Industria. All'inizio del 1965 rinuncia alla cittadinanza cubana e a tutti gli incarichi cumulati a Cuba, per poter dedicare tutte le sue energie, come scrive in una lettera di congedo a Castro, «al movimento rivoluzionario in un altro paese del mondo». Guevara mette così in pratica la concezione politica e strategica che è venuto maturando durante l'esperienza cubana imperniata sulla lotta armata (iniziata da piccoli nuclei di guerriglieri altamente addestrati e politicamente preparati e poi estesa alla massa della popolazione) nei paesi latinoamericani. Nel mese di ottobre del 1967, quando ormai il movimento insurrezionale da lui promosso si è gravemente indebolito, Guevara è catturato in Bolivia e ucciso. Riportiamo uno tra i tanti aneddoti utili a capire la profonda dimensione umana ed etica di Guevara; è il compagno Borrego che racconta: «...poco dopo la nascita del Ministero dell'Industria ricevetti una delle prime lezioni sull'etica e sulla forma in cui doveva comportarsi un funzionario pubblico con responsabilità dirigenziali. …nella mia gioventù, aspirai sempre ad avere un'automobile propria e di una marca più o meno nota. Il Che, avendomi assegnato per il mio lavoro, un’auto statale, aveva già soddisfatto in parte il mio desiderio, ma l’aspirazione ad averla di marca, ancora mi tentava parecchio... Una delle fabbriche di sigarette più importanti de L'Avana, quando venne nazionalizzata, possedeva tra i propri beni, un'auto Jaguar, praticamente nuova.
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il nemico principale. Deve esserci consapevolezza delle contraddizioni che spesso ci si trova a dover affrontare nel mondo reale della politica, ad esempio nell’analisi dei regimi antitetici all’imperialismo statunitense. Ad essere segnalati come “stati-canaglia” sono generalmente quei paesi che rifiutano il libero mercato, oppure lo limitano nei più importanti settori strategici, al fine di diminuire l’influenza e il peso politico delle aziende e dei governi occidentali. Spesso però tali paesi che si pongono in conflitto con l’imperialismo dominante difendendo la propria sovranità, presentano molteplici contraddizioni interne, specie sui rapporti di produzione capitale-Lavoro, oppure sui rapporti di genere e sui diritti civili. Ciò impone ancor più un adeguato apprendimento dei principi basilari del materialismo dialettico, al fine di rifuggire da una lettura binaria della politica che scada nel dogmatismo o nella mera geopolitica borghese, ma che sappia piuttosto abbracciare utopia e concretezza: partiamo dalla lezione della moderna scienza politica introdotta da Machiavelli, coniughiamola con saldi principi rivoluzionari e l’esigenza di calarsi in una realtà sgradita. Accettiamo che talvolta occorra saper stringere alleanze e compromessi discutibili, ma utili in vista del proprio programma di riferimento. Vediamo allora come Lenin, meglio di ogni altro, si sia soffermato a lungo su questi concetti. [Testo e immagine tratti da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/. Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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COME LOTTARE CONTRO L’IMPERIALISMO «Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi. Mascalzoni ignoranti […] i quali non solo negano la lotta, ma persino l’esistenza delle classi, dimostrano soltanto, nonostante i loro latrati sanguinari e le loro pose umanistiche, di ritenere le condizioni sociali nelle quali la borghesia domina come il prodotto ultimo, come il non plus ultra della storia, di non essere che servi della borghesia, una servitù che è tanto più ripugnante, quanto meno questi straccioni riescono a capire anche solo la grandezza e la necessità transitoria del regime borghese stesso». (Karl Marx) Accertata l’analisi e le conseguenze nefaste dell’imperialismo, occorre segnalare, riguardo all’ascesa dei BRICS, specchio di un mondo sempre più multipolare, l’utile l’osservazione di Domenico Losurdo: «noi siamo in presenza, se diamo uno sguardo a livello mondiale, non di uno, ma di due processi di redistribuzione del reddito, tra loro contrapposti. Nell’ambito dell’occidente capitalistico vediamo appunto la redistribuzione del reddito a favore delle classi ricche e privilegiate. A livello planetario noi vediamo una redistribuzione del reddito a favore dei paesi che hanno alle spalle una rivoluzione anticoloniale e che adesso, dopo essersi scossi di dosso l’assoggettamento politico, tentano di scuotersi di dosso anche l’assoggettamento economico e tecnologico. È il fenomeno, soprattutto, dei paesi emergenti ed in primo luogo della Cina». La condivisibile tesi di Losurdo è che oggi come ieri occorra «per un verso contestare nell’occidente capitalistico questa redistribuzione del reddito a favore dei ceti ricchi e privilegiati». Per altro verso, «a livello globale e planetario, appoggiare e favorire questo processo di redistribuzione del reddito a favore dei paesi emergenti e a favore dei paesi che sono stati protagonisti della rivoluzione anticoloniale». In questo quadro occorre quindi contrastare con ogni mezzo l’imperialismo occidentale. Lo si può fare in due maniere. La prima, quasi ovvia e scontata, è lavorare per la rivoluzione socialista, ossia per la conquista del potere politico che porti all’espropriazione del potere non solo politico, ma anche economico, della borghesia. Spodestare la borghesia del proprio paese dal potere significa costituire un esempio ulteriore per i popoli di tutto il mondo, avviando un processo virtuoso di emulazione capace di accelerare la creazione di nuove energie in milioni di proletari. Ad una tale rivoluzione, se è una vera rivoluzione, deve necessariamente conseguire la modificazione delle relazioni diplomatiche, politiche ed economico-commerciali del paese, andando ad indebolire, fino alla totale eliminazione, le strutture capitalistiche ed imperialiste. Ponendo termine alla propria corresponsabilità della rapina sistematica di altri popoli, si favorirà un nuovo sistema fondato sulla cooperazione pacifica internazionale. Lavorare per la rivoluzione significa lavorare per un mondo più giusto, equo, solidale e antirazzista, capace di mettere l’economia al servizio degli uomini piuttosto che l’inverso. Prendere il potere non è però facile, ed in una condizione intermedia occorrerà fare politica favorendo e appoggiando l’ascesa di un polo antimperialista costituito da stati (su tutti la Cina e le più avanzate realtà del “Terzo Mondo”) ad orientamento socialista, attualmente i maggiori centri di resistenza verso il potere di Washington, dove alberga
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2) Per far presa su questo settore sociale, estremamente eterogeneo, bisogna denunciare il fallimento della “seconda repubblica” e del suo finto bipolarismo. Il recupero della sovranità nazionale e popolare sono condizioni essenziali per costruire una terza repubblica popolare: una proposta che non può essere portata avanti dai soli comunisti, ma che deve aprirsi a tutti coloro che hanno compreso la necessità di superare l’attuale modello istituzionale ed economico. I migliori programmi hanno però bisogno di rapporti di forza adeguati per diventare credibili e attrattivi. Serve quindi costruire un vasto fronte sociale e politico antimperialista che non rinunci, per elemosinare qualche voto moderato inesistente, a denunciare chiaramente la natura antidemocratica e impopolare della NATO e dell’UE, i due simboli relativamente delle politiche di guerra e di massacro sociale. 3) Un simile fronte può funzionare solo in presenza di una direzione comunista adeguata, capace di mantenere la rotta senza sbandamenti e di indirizzare il movimento attraverso un radicamento esteso di quadri e militanti che sappiano raccogliere e far lavorare proficuamente i singoli delusi che non intendono arrendersi. Occorre in tal senso portare avanti l’offensiva unitaria delle residuali forze comuniste di questo Paese, che seppur ridotte a poche migliaia di persone sono premessa indispensabile per fare massa critica e calamitare attorno a sé altre forze ancor più disorganizzate e confuse e singoli rassegnati e ritirati a vita privata. Per tutte queste ragioni e per dare forza a questa progettualità invitiamo tutti i compagni e le compagne a iscriversi a Resistenza Popolare. (A cura della Direzione Nazionale di Resistenza Popolare) Fonte: https://www.resistenzapopolare.org/
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Probabilmente una parte di questi voti persi è confluita sull’Alleanza Verdi e Sinistra, che è la vera sorpresa delle elezioni, conquistando 1,57 milioni di voti (6,75%), ossia mezzo milione di voti in più rispetto al 2022 (e perfino rispetto al 2019, quando Sinistra e Verdi avevano corso in due liste distinte). Fratojanni e Bonelli hanno azzeccato la scommessa di candidare la Salis, altra protagonista nella raccolta delle preferenze: è significativo che ciò sia avvenuto per un caso mediatico (contrapposto idealmente a Vannacci) costruito dall’alto, premiando un’azione piuttosto che parole, discorsi e programmi. Complessivamente però rispetto al 2022 il centro-sinistra perde più voti (-1,3 milioni) rispetto al centro-destra: un dato importante che evidenzia la dilatazione delle crepe nel regime e la vacuità dell’opposizione al governo, incapace di distinguersi in maniera significativa sui temi sociali e della guerra. Fuori dai due blocchi rimangono escluse tutte le altre forze: sia i poli centristi che le forze più o meno “antisistema”. La lista Stati Uniti d’Europa (Renzi, Bonino, PSI, ecc.) conquista 876 mila voti (3,77%) mentre Azione – Siamo Europei ne prende 779 mila (3,35%). La divisione delle due forze impedisce loro di ottenere rappresentanza istituzionale, e probabilmente contribuisce all’indebolimento di un’area di elettorato molto più ampia, che nel solo 2022 sfiorava i 3 milioni di voti. Complessivamente la progettualità liberal-centrista europeista si dimezza, anche se mantiene un bacino superiore quasi del doppio rispetto al 2019. Nell’area della "sinistra radicale" il progetto Pace Terra e Dignità di Santoro conquista 513 mila voti (2,2%), poco più dei 400 mila che avevano votato Unione Popolare nel 2022, anche se il dato non è sovrapponibile. Ai quadri e militanti del PRC, che hanno reso possibile il progetto, c’è da chiedere se valesse la pena distruggere Unione Popolare per ottenere un guadagno così scarno. Nell’area del “dissenso” le cose vanno ancora peggio: nonostante la ventina di sigle raggruppate (spazianti da leghisti, sovranisti, autonomisti e vari), la lista Libertà si ferma a 285 mila voti (1,22%), con un guadagno minimo rispetto ai 212 mila presi nel 2022 dal più chiaro progetto Sud chiama Nord di Cateno De Luca. Disastroso il risultato di Democrazia Sovrana Popolare, che prende 35 mila voti (0,15%). Rizzo e Toscano hanno la scusante di essere stati presenti solo nella circoscrizione centrale, ma anche scomponendo il dato la percentuale aumenta solo allo 0,75%. Si nota facilmente l’arretramento complessivo di tale progettualità sia rispetto al risultato di Italia Sovrana e Popolare (348 mila voti nel 2022) sia rispetto al risultato del Partito Comunista nel 2019 (235 mila voti complessivi, 69 mila cinque anni fa nella sola circoscrizione dell'Italia centrale e 1,25%, se vogliamo limitarci ad un confronto nelle sole regioni in cui DSP era presente). La liquidazione di fatto del Partito Comunista per puntare ad un soggetto spostato a destra che ha abbandonato la discriminante antifascista e ha aperto ad Alemanno (e persino ad un liberista e sostenitore di Israele come Bandecchi), ha portato a questa clamorosa débacle. Non ci aspettiamo che il gruppo dirigente faccia autocritica, ma speriamo che quei pochi compagni validi rimasti al suo interno (del PC ma anche di DSP) prendano consapevolezza del totale fallimento di tale progettualità e portino le proprie energie al servizio di un percorso alternativo ma necessario. Si tratta per noi ora del difficile compito di lavorare alla costruzione di un’alternativa politica capace di rivolgersi in tre direzioni: 1) La vasta area dell’astensionismo, che costituisce un mare aperto in cui navigare ed in cui si può essere credibili solo costruendo un programma antitetico all’UE e alla NATO, oltre che alle politiche neoliberiste.
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COSA CI DICE IL RISULTATO ITALIANO ALLE ELEZIONI EUROPEE Il primo dato eclatante è che per la prima volta nella storia repubblicana di questo Paese, l’affluenza ad un’elezione di carattere nazionale è minore del 50% (49,69%; 48,21% se si considera anche gli italiani all’estero). Più di un cittadino su due non ha ritenuto utile e necessario recarsi alle urne. Il dato andrebbe scomposto ulteriormente, dato che, mentre l’Italia settentrionale e centrale viaggia tra il 52 e il 55% di affluenza, nel Sud questa precipita al 43% e nelle isole addirittura al 37%, ricordando le conseguenze della crisi sulla perdurante e aggravata “questione meridionale”. La tendenza all’astensionismo prosegue ormai inarrestabile da decenni e costituisce un motivo profondo di sfiducia e denuncia silenziosa nei confronti della “democrazia liberal-borghese”. Ha sicuramente pesato in particolar modo la natura profondamente antidemocratica dell’UE, i cui membri del Parlamento europeo hanno un potere molto limitato rispetto agli organismi, non eletti, che decidono realmente sulle politiche continentali, ma la di là di una minoranza che ha scelto coscientemente di astenersi per non legittimare le attuali istituzioni europee, il dato centrale è l’aggravamento dello scollamento tra la società civile e la sfera della politica. Per una parte ormai maggioritaria della popolazione la politica, non solo quella borghese, non viene più percepita utile a risolvere i propri problemi personali e collettivi. Il circo barnum della politica italiana tende ad ignorare questo fatto e sbandiera percentuali più o meno trionfanti, ma il Paese reale ci dice che solo 13 italiani su 100 aventi diritto hanno dato la propria fiducia a Fratelli d’Italia, il partito più votato; solo 11 su 100 per il Partito Democratico e meno di 5 su 100 per i M5S, Lega, Forza Italia. AVS ha convinto 3 cittadini su 100. Di fatto solo il 40% degli italiani aventi diritto di voto troveranno rappresentanza istituzionale nel Parlamento Europeo, mentre il restante 60% ne rimane escluso anche a causa di una legge elettorale antidemocratica che pone uno sbarramento assurdo al 4%. Fatta questa premessa, si possono confrontare i risultati dei votanti, principalmente con le elezioni Politiche del 2022 e, laddove utile, con le Europee del 2019. Partendo dalle forze di governo: Fratelli d’Italia ottiene circa 6,68 milioni di voti (28,77%); rispetto al boom del 2022 perde circa 700 mila voti, in maniera significativa stante la prosecuzione delle politiche intraprese da Draghi (guerra in Ucraina compresa). Forza Italia ottiene circa 2,23 milioni di voti (9,62%), sostanzialmente stabile rispetto ai 2,35 del 2019 e ai 2,27 del 2022, confermando che la sua forza attuale non risiede nella persona in sé di Berlusconi, quanto nel suo impero economico e mediatico. Nonostante il boom di preferenze per Vannacci (mossa azzeccata dal punto di vista di Salvini) la Lega ottiene circa 2,09 milioni di voti (9,01%) perdendo circa altri 400 mila elettori rispetto al 2022, proseguendo così un declino che accentuerà i mal di pancia delle opposizioni interne. Complessivamente le forze riconducibili al centro-destra perdono oltre 1 milioni di voti rispetto al 2022, ma rimangono maggioranza relativa nel Paese, con quasi 11 milioni di votanti complessivi, che su 49 milioni di aventi diritto di voto, significa poco più di 1 italiano su 5. Riguardo all’opposizione: il Partito Democratico ottiene 5,59 milioni di voti (24,08%), perdendone circa 500 mila rispetto al 2019 ma recuperandone 130 mila rispetto al 2022, il che può far parlare alla Schlein di una parziale vittoria, essendo una delle poche forze a crescere non solo in percentuale ma in termini assoluti. Il M5S ottiene 2,32 milioni di voti (9,98%), praticamente la metà rispetto ai 4,56 milioni presi nel 2019 e ai 4,33 del 2022. È la forza politica che perde di più in tutta la tornata elettorale.
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https://www.youtube.com/watch?v=b0dnZA0ffd8
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Ottima riuscita dell’assemblea pubblica sul tema “Cina e Russia: paesi imperialisti?”, organizzata a Milano presso la sala 1° maggio il 27 maggio 2024 su iniziativa della sezione milanese di Resistenza Popolare, assieme a Miracolo a Milano e alle sezioni locali di Patria Socialista e del Partito dei CARC. Dopo l’introduzione di Alessandro Pascale (Resistenza Popolare) ha portato un saluto il segretario milanese del Partito Comunista Italiano Massimo Cimbali, poi il giornalista Evgeny Utkin ha approfondito il discorso sulla Russia, andando ben oltre la relazione qui sotto riportata. È intervenuto Vladimiro Merlin per il Movimento per la Rinascita Comunista e a seguito le tre relazioni tenute da Alessio Gasperini (Miracolo a Milano), Mattia Cavatori (Partito dei CARC) e Marco Mainardi (Patria Socialista). Ne è seguito un maturo dibattito politico che ha accresciuto la coscienza dei partecipanti. L’iniziativa ha evidenziato una ricchezza e convergenza oggettiva di analisi, seppur con sfumature differenti, sull’analisi attuale e sulla constatazione che Russia e Cina non siano equiparabili ad essere considerati Paesi imperialisti, nemmeno facendo riferimento alle categorie leniniste. Questa è la nostra risposta a chi, portando avanti la dottrina degli “opposti imperialismi”, fa oggettivamente il gioco della propaganda di Washington e Bruxelles. Si pubblica di seguito il video (disponibile sul nostro canale Youtube) e gli atti scritti delle relazioni tenute dagli enti organizzatori. https://intellettualecollettivo.it/perche-cina-e-russia-non-sono-paesi-imperialisti/
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SENZA SOVRANITÀ NON C'È SOCIALISMO POSSIBILE Si può ricordare infine la sintesi fatta da Palmiro Togliatti sulla questione: «assai spesso, i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia. Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo. Lottando sotto la bandiera solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno solidamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli popoli. È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri». Il tema è particolarmente rilevante per comprendere oggi l’importanza della “questione nazionale” e della riacquisizione della sovranità, la quale nell’epoca del colonialismo e dell’imperialismo è diventata per i popoli coloniali e semi-coloniali una base imprescindibile per spostare il terreno di lotta su una base più avanzata per ricollegarsi dialetticamente alla questione sociale. Il diffuso attuale rigetto dell’idea di sovranità da parte delle “sinistre” è connesso alla loro ignoranza e al loro sostanziale antileninismo, comprensivo del rifiuto dell’idea che sia possibile avviare la costruzione del socialismo in un solo paese. Ciò avviene perché si è accettata la falsa narrazione borghese del fallimento dell’URSS, la cui esperienza ha invece dimostrato non solo la superiorità del sistema socialista, ma anche che rompendo l’anello più debole della catena imperialista mondiale sia possibile innescare un ciclo internazionalista progressivo per le sorti dell’intera umanità. [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo tratto da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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Pertanto il Partito comunista dell’Unione Sovietica combatte il cosmopolitismo sul fronte ideologico: l’adulazione della cultura borghese reazionaria, l’atteggiamento negativo verso le conquiste della cultura sovietica, lo svilimento e il disprezzo del ruolo di spicco del popolo russo e della sua scienza, della sua cultura, della sua arte, il disprezzo delle tradizioni progressive delle altre nazionalità dell’URSS. Allo stesso tempo la cultura socialista assimila tutto ciò che di grande, di prezioso ha creato la cultura mondiale. Il rispetto delle conquiste delle culture nazionali di tutti i popoli è un tratto inalienabile dell’ideologia del popolo sovietico». [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo tratto da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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COSMOPOLITISMO? NO GRAZIE Al contrario del concetto di internazionalismo proletario, il cosmopolitismo indica l’internazionalismo della borghesia, cioè quel fenomeno legato alla mondializzazione dei mercati, che è ben lontana ovviamente dalla solidarietà tra i popoli: «nel linguaggio marxista viene solitamente preferito al termine cosmopolitismo quello di internazionalismo proletario, per sottolineare gli aspetti antinazionalisti della concezione marxista dei rapporti tra i popoli di diverse nazioni. Infatti il significato di cosmopolitismo (dal greco κόσμος – mondo e πολίτης – cittadino), di derivazione illuministica, viene piuttosto riferito a un ideale di superamento delle nazionalità indipendentemente dalla valutazione delle condizioni politiche, economiche e, in generale, storiche che possono determinarlo, mentre l’accezione internazionalismo proletario meglio si adegua agli obiettivi storici generali della classe operaia e, in ultima istanza, al superamento dei confini nazionali dovuto all’estinzione delle classi e dello Stato». Nel 1848 Marx in un celebre discorso sul “libero scambio” afferma che «designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale, è un’idea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia» , tradotto così nel 1894 da Filippo Turati: «solo alla borghesia può venir in mente di qualificare fratellanza lo sfruttamento cosmopolita dei lavoratori» . Questa può essere un’ottima chiave di lettura per l’analisi dell’Unione Europea: non certo un’unione di popoli, ma di capitali contro i popoli, velando l’oppressione con l’ideologia “dell’erasmus”. Secondo il Piccolo Dizionario Filosofico di marca sovietica, il cosmopolitismo è una «ideologia borghese reazionaria che predica l’indifferenza per gli interessi, le tradizioni e la cultura nazionali, l’abbandono della sovranità nazionale. Il cosmopolitismo dissimula il suo vero carattere dichiarando che l’universo è patria di ogni uomo. Ma in realtà il cosmopolitismo propagato dagli ideologi dell’imperialismo è un’arma dei monopoli nella loro lotta contro l’indipendenza nazionale dei popoli, uno strumento ideologico per asservire economicamente e politicamente i popoli liberi. Facendo propaganda a favore del cosmopolitismo, dell’idea di “governo mondiale”, gli imperialisti mirano ad assopire la vigilanza dei popoli, a coltivare l’ideologia del tradimento della patria. Il cosmopolitismo è l’ideologia della borghesia attuale che pone i suoi interessi al di sopra di tutto e che, per soddisfarli, è pronta a tradire la nazione. “Prima, diceva I. Stalin al XIX Congresso del partito, la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l’indipendenza della nazione e li poneva ‘al di sopra di tutto’. Ora non vi è più traccia del ‘principio nazionale’, oggi la borghesia vende i diritti e l’indipendenza della nazione per dollari. La bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare”. Il cosmopolitismo è una comoda maschera per la borghesia, sempre pronta a tradire gli interessi della nazione. Numerosi dirigenti dei socialisti di destra predicano anch’essi le idee del cosmopolitismo. Agli antipodi del cosmopolitismo borghese si colloca l’internazionalismo proletario che associa armonicamente gli interessi nazionali degli operai e di tutti i lavoratori, il loro patriottismo profondamente popolare e la solidarietà del proletariato mondiale in lotta contro il capitalismo, sorgente profonda dell’odio fra le nazioni. I partiti comunisti e operai, autentici difensori dell’indipendenza nazionale, della libertà dei popoli, levano alta la bandiera dell’indipendenza e della sovranità nazionali. Il cosmopolitismo è incompatibile con l’internazionalismo proletario, con il patriottismo sovietico.
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https://intellettualecollettivo.it/chi-votare-alle-prossime-elezioni-europee/
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PATRIOTTISMO NON VUOL DIRE NAZIONALISMO I comunisti rifiutano ogni tipo di ideologia razzista e prevaricatrice che affermi la superiorità di un popolo su un altro. Questo è il motivo per cui il comunismo proletario internazionale ha appoggiato i popoli coloniali nelle lotte contro l’imperialismo al fine di favorire la rovina definitiva del sistema imperialistico mondiale. Ne era ben cosciente Nelson Mandela quando assieme a Joe Slovo nel 1961 fondava l’Umkhonto we Sizwe (MK), l’ala militare dell’ANC, come strumento principale finalizzato a lanciare una rivoluzione comunista in Africa del sud. Un legame, quello di Mandela con il comunismo, durato tutta la vita in nome della lotta al regime imperialista e schiavista dell’apartheid, tant’è che dopo decenni di sostegno economico e militare sovietico all’ANC, Mandela, ricevendo il 3 luglio 1991 la delegazione sovietica, non poté che ringraziare l’URSS per il lungo e durevole sostegno dato. Solo dopo la sua morte si è scoperto quel che molti sapevano già nel cuore: Mandela era stato fin dall’inizio della propria militanza uno dei massimi dirigenti del partito comunista sudafricano . Anche Mandela, come ogni proletario cosciente di ogni singolo paese, conosceva la necessità di cancellare i rapporti di produzione capitalistici su scala globale, distruggendo alla radice ogni tipo di minaccia imperialistica. La grande industria, con il mercato globale, ha collegato tutti i popoli della terra, livellando lo sviluppo sociale nei paesi civili in cui la lotta principale è quella tra borghesi e proletari. Per questo è fondamentale il tema dell’internazionalismo per il quale i proletari dei vari paesi hanno obiettivi comuni e quindi devono unirsi. Di qui il noto appello finale del Manifesto: «proletari di tutti i paesi, unitevi!» Secondo l’internazionalismo proletario i membri della classe operaia devono agire in solidarietà verso la rivoluzione globale ed in supporto ai lavoratori degli altri paesi. L’internazionalismo è anche un deterrente contro le guerre tra nazioni (tra Stati borghesi), poiché non è nell’interesse dei proletari imbracciare le armi tra loro, mentre è più utile che lo facciano contro la borghesia che li opprime: con la solidarietà proletaria e l’instaurazione di rapporti fondati sulla mutua cooperazione e il reciproco sviluppo, si potrà arrivare alla fine dei conflitti fra nazioni e alla scomparsa delle stesse. La divisione del mondo in classi, nazioni e religioni è cioè un ostacolo allo sviluppo della civiltà umana se condotto su basi capitalistiche, ma è una ricchezza culturale inestimabile in una società comunista trionfante, che dopo aver stabilito la giustizia sociale, dovrà cercare di prevenire le degenerazioni e preparare l’umanità ad affrontare le sfide del futuro. Per fare questo, e per trovare un modello condiviso, sarà necessario valorizzare le tradizioni migliori e le culture di tutti i popoli del mondo, costruendo una nuova koinè condivisa. [Post completo sui nostri canali telegram https://t.me/intellettualecollettivo e Facebook. Testo tratto da A. Pascale, "Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari". Info su https://intellettualecollettivo.it/comunismo-o-barbarie/]
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L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approva senza riserve la repressione, definendo la rivolta un «complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer». Tale giudizio, pur avendo un fondo di verità e risultando aderente alla logica di non cedere di un millimetro di fronte alla propaganda nemica, sia impreciso. Che ci siano stati interventi e strumentalizzazioni dell'imperialismo occidentale è fuor di dubbio, ma causa altrettanto importante è stata l'erroneità delle decisioni prese dalla SED, probabilmente suggerita male (volutamente?) da organismi politici non adeguati a Mosca. Secondo lo storico Gossweiler, l'erroneità della modalità di procedere è dovuta alla crisi in cui era piombata la direzione del PCUS dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), con la lotta interna iniziata tra i revisionisti Chruščev e Mikojan da una parte e quelli (Molotov, Malenkov, Berija, Bulganin, ecc.) che verranno da questi bollati come “stalinisti” (in realtà marxisti-leninisti) dall'altra. Gossweiler non esclude che tale gestione, evidentemente inadeguata, sia stata volutamente favorita e suggerita da Mosca da esponenti interessati ad ottenere un cambio al vertice della SED, riuscendo così a sostituire il marxista-leninista Walter Ulbricht con una dirigenza più affine al “nuovo corso” chruščeviano. Si ricordi infine la posizione di Bertolt Brecht sulla questione. In una lunga lettera indirizzata all’editore Peter Suhrkamp, Brecht spiegò quanto i lavoratori fossero giustamente amareggiati. «Eppure – egli scrive – anche nelle prime ore del 17 giugno le strade presentavano un grottesco insieme di lavoratori non solo uniti alla gioventù più degradata… ma anche a figure rozze e grossolane appartenenti all’era nazista, il prodotto locale, gente che per anni mancava di una banda, ma che era rimasta lì tutto quel tempo». Quando la rivolta operaia di Berlino fu repressa dai carri armati sovietici, Brecht scrisse al presidente della Germania Orientale Ulbricht per congratularsi e per rinnovargli il suo apprezzamento al regime comunista tedesco: «Elementi fascisti sobillati dall’Occidente – annotò l’intellettuale – hanno cercato di sfruttare l’insoddisfazione del popolo tedesco (lapsus che indurrebbe a pensare che proprio il popolo tedesco orientale non dovesse spassarsela troppo sotto il regime comunista) per perseguire i loro subdoli e sanguinari propositi... Ma grazie al rapido e puntuale intervento delle truppe sovietiche questo tentativo è stato vanificato... Ovviamente, le forze armate russe non se la sono presa con gli operai, ma contro la marmaglia fascista e guerrafondaia composta da giovani diseredati di ogni risma che aveva invaso Berlino». Brecht conosceva bene la differenza tra ribelle e rivoluzionario e che non ogni rivolta fosse da appoggiare ma solo quelle che fossero utili all'avanzamento sociale complessivo per la costruzione del socialismo. Giudicò evidentemente quelle rivolte infiltrate e sobillate da elementi reazionari, e come tali da condannare. Ben fatto compagno Brecht! [Seguici sui nostri canali I Maestri del Socialismo su Facebook, Instagram e soprattutto Telegram - https://t.me/intellettualecollettivo. Info e materiali su Intellettualecollettivo.it e Storiauniversale.it]
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IL TENTATO GOLPE DEL 17 GIUGNO 1953 Sui moti di Berlino del 1953 leggiamo quanto scrivono Aldo Bernardini e Adriana Chiaia: «I moti di protesta e gli scioperi che ebbero luogo il 17 giugno 1953 a Berlino e in altre località della RDT (tra i primi lo sciopero degli operai e dei cantieri di costruzione della Stalinallee) furono la risposta ai provvedimenti, decisi dalla SED (Partito di Unità Socialista di Germania) e dal governo, che comportavano l'aumento generalizzato dei prezzi dei beni di consumo indispensabili, l'esclusione di ampie categorie di cittadini dalla possibilità di approvvigionarsi a prezzi contenuti di beni alimentari ed inoltre il peggioramento delle norme e dei tempi di lavoro per gli operai. Nelle manifestazioni spontanee, volte ad ottenere il ritiro di simili provvedimenti, si insinuò l'attacco sovversivo delle potenze imperialiste occidentali allo scopo di abbattere il governo del primo Stato socialista in Germania. Risultarono subito evidenti l'intento di trasformare ogni sciopero rivendicativo ed ogni manifestazione sindacale operaia in insurrezione contro il governo e il carattere organizzato e premeditato dell'intervento pilotato dall'esterno. La presenza attiva di noti nazisti e di provocatori mercenari provenienti da Berlino Ovest, che mettevano in bocca ai dimostranti parole d'ordine come: “elezioni libere, libertà per tutti i partiti, liberazione dei prigionieri politici (nazisti condannati per crimini di guerra)” e slogan antisovietici, è ampiamente provata perfino dalle testimonianze insospettabili di giornali occidentali (compresi quelli anticomunisti). La rivolta fu repressa in breve tempo dall'intervento militare delle forze sovietiche ed in alcune situazioni dagli stessi operai che si opposero alle devastazioni istigate dai provocatori. Per individuare la causa primaria delle misure peggiorative delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione, che il partito ed il governo della RDT erano stati costretti ad emanare, bisogna risalire al netto rifiuto delle potenze occidentali di accettare la soluzione, proposta da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale, dell'unificazione di una Germania neutrale e smilitarizzata. Il successivo riarmo della Germania occidentale e la sua integrazione nel sistema militare europeo, avevano imposto alla classe dirigente della RDT la decisione di accelerare il processo di socializzazione dell'economia e di far fronte alle spese militari che la nuova situazione comportava. Tuttavia la congiuntura non giustificava la pessima e contraddittoria gestione dall'alto delle pur necessarie misure economiche che ne derivavano. Esse, emanate non senza l'obbligata consultazione con la Commissione di controllo sovietica, presente sul territorio della Germania Est, furono successivamente bruscamente revocate dopo la rivolta (tranne quelle concernenti le condizioni e i ritmi di lavoro nelle fabbriche) per espresso ordine di Mosca. In entrambi i casi furono decisioni imposte senza una adeguata consultazione e discussione nelle istanze di base del partito, del sindacato e delle organizzazioni di massa. Questo stile di lavoro, non poteva che minare la fiducia della classe operaia e di vasti strati della popolazione nei confronti del partito e fomentare il rifiuto di qualsiasi provvedimento, anche se giustificato. I dirigenti della SED affrontarono la situazione critica con una riflessione e un dibattito interno sulle cause degli eventi, ma resistettero alle pressioni interne (minoritarie) ed esterne (sovietiche) non aprendo a soluzioni revisionistiche, come sarebbe accaduto in Polonia e in Ungheria nel 1956, bensì riaffermando i principi e la prassi della politica e dell'economia socialiste».
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«Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo Stato e dalla parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “Non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il Paese”. O tutto, o niente». Una recensione del lavoro di Sidoli, Burgio e Leoni a cura di Pietro Terzan. https://intellettualecollettivo.it/il-fattore-malvinas/
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IL FATTORE MALVINAS - Intellettuale Collettivo

«Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo Stato e dalla parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “Non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il Paese”. O tutto, o niente». Una recensione del lavoro di Sidoli, Burgio e Leoni a cura di Pietro Terzan. https://intellettualecollettivo.it/il-fattore-malvinas/
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Per lo storico e partigiano Marc Bloch, nome di battaglia "Narbonne" (6 luglio 1886 - 16 giugno 1944) "Ma adesso il compito più urgente è di raccogliere i materiali. È tempo di aprire un'inchiesta seria sulle false notizie di guerra, perché i quattro anni terribili già si allontanano verso il passato e, prima di quanto si creda, le generazioni che li hanno vissuti cominceranno lentamente a sparire. Chiunque ha potuto e saputo vedere deve sin da ora raccogliere i suoi appunti o mettere per iscritto i suoi ricordi. Soprattutto non lasciamo il compito di svolgere queste ricerche a uomini del tutto impreparati al lavoro storico. In questa materia, le osservazioni veramente preziose sono quelle che vengono da persone abituate ai metodi critici e a studiare problemi sociali. La guerra, come ho detto sopra, è stato un immenso esperimento di psicologia sociale. Consolarsi dei suoi orrori rallegrandosi del suo interesse sperimentale significherebbe mostrare un dilettantismo di cattivo gusto. Ma, poiché essa ha avuto luogo, è opportuno utilizzarne gli insegnamenti al meglio della nostra scienza. Affrettiamoci a trarre profitto da un'occasione, che dobbiamo sperare unica". (M. Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921)
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VALENTINA TERESHKOVA, LA PRIMA DONNA NELLO SPAZIO Manifesto Sovietico: «Onore alla prima donna cosmonauta!» Il 19 giugno del 1963 torna a terra la cosmonauta Valentina Tereškova. A bordo della capsula Vostok 6 ha compiuto 48 orbite intorno al nostro pianeta ed è rimasta nello spazio per 3 giorni. Era partita il 16 di giugno: quel giorno, alle 14.00 (ora di Mosca) la televisione sovietica annuncia che una nuova capsula si aggiunge alla Vostok 5 di Bykovskij lanciata due giorni prima. A pilotarla è una cosmonauta di nome Valentina, la prima donna a volare nello spazio. Il primo ministro Chruščev riporta così la sua ennesima vittoria propagandistica sugli Stati Uniti: il viso di brava ragazza e l'impresa spaziale di Valentina Tereškova diventano i simboli dell'emancipazione, dell'auto-determinazione e del coraggio delle donne sovietiche. Valentina Tereškova (nata a Bol'šoe Maslennikovo il 6 marzo 1937) è il ritratto della donna sovietica ideale: -figlia di proletari: il padre è un carrista caduto durante la seconda guerra mondiale; -operaia: da giovane lavora in una fabbrica produttrice di pneumatici e successivamente in un'azienda produttrice di fili; per sette anni svolge la professione di sarta e stiratrice all'interno di quest'azienda; -studentessa-operaia: ha frequentato corsi serali per diventare tecnica, diploma che consegue nel 1960; -compagna: iscritta al Komsomol, la sezione giovanile del partito comunista, tant'è che anche dopo il successo planetario ottenuto con il viaggio nello spazio la compagna Tereškova realizza una splendida carriera politica: a maggio del 1966 viene eletta a far parte dell'Alto Soviet dell'Unione Sovietica e a maggio del 1968 diventa presidente del comitato donne dell'Unione Sovietica. Nel 1971 diventa membro del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. A partire dal 1974 fa parte del direttivo del Soviet Supremo e dal 1976 in poi vicepresidente della commissione per l'educazione, la scienza e la cultura dell'Unione Sovietica. Come è riuscita a diventare una cosmonauta? A partire dal 1955, pur lavorando come operaia, Tereškova diventa un'appassionata paracadutista. Grande ammiratrice di Jurij Gagarin si candida più volte per frequentare la scuola per aspiranti cosmonauti. Nel 1962 riesce a partecipare all'esame di assunzione per il primo gruppo di donne cosmonaute; supera con merito l'esame insieme ad altre quattro candidate (Žana Jerkina, Tatiana Kuznecova, Valentina Ponomareva e Irina Soloveva) e inizia così il suo addestramento. È l'unica delle cinque donne ad andare nello spazio. Quando realizza l'impresa ha solo 27 anni. Da segnalare che una nuova missione femminile vede protagonista Svetlana Savitskaya nel 1982; ed è lei, spedita nuovamente in missione insieme con due compagni a bordo del Sojuz T12, ad effettuare anche la prima “passeggiata fuoribordo” di una donna nello spazio, il 17 luglio 1984. La medesima astronauta è anche la prima donna a compiere due voli spaziali. Infine, un vero record di resistenza fisica e psichica è quello di Yelena Kondakova, che ha trascorso ben 169 giorni a bordo di una Sojuz TM-17. Il primo viaggio di una cosmonauta statunitense su uno shuttle (Sally Ride), avviene invece solo nel 1983. Per inciso negli USA già nel 1960 ben tredici donne superano gli stessi test dei colleghi uomini della missione Mercury 7, eguagliandone i risultati nelle prove fisiche e superandoli in quelle psicologiche. Ma le americane del gruppo “Mercury 13” non avrebbero mai volato nello spazio: sconfitti per la terza volta nella corsa per lo spazio, gli USA interrompono i test e chiudoo il programma “Mercury 13” per dirottare tutte le energie sulla sfida della conquista della Luna. Sono stati recentemente svelati alcuni retroscena di questo fallimento del “Mercury 13”, che non è solo conseguenza della tempestività dell'URSS, ma anche di pregiudizi e giochi di potere all'interno della comunità scientifica e della stessa NASA.
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