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Andrea Zhok

Antropologia / Filosofia / Politica

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La funzione rimasta all’informazione ufficiale non è dunque più quella di produrre forti convincimenti nel grande pubblico. Può accadere su temi inediti, come è accaduto durante la pandemia, ma questo tipo di presa è sempre più fioca. No, il ruolo rimasto alla “grande informazione pubblica” (in ciò simile al ruolo dei “grandi partiti”) è soprattutto quello di creare un tappo che impedisca la crescita del nuovo. Essi non riescono più a convincere, figuriamoci a istruire, ma riescono ad occupare con il rumore bianco delle proprie narrazioni di comodo quasi ogni spazio mentale. E rispetto ai pochi spazi che non occupano si producono costantemente in un’attività di discredito e delegittimazione delle voci indipendenti, trattate come complottismo, come “bufale” da sottoporre al proprio integerrimo fact-checking. L’informazione odierna non è più davvero in grado di produrre una convincente verità pubblica, ma le è rimasto il compito di impedire a qualunque altra verità di farsi largo, e questo compito lo svolge ancora egregiamente.
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Oggi, 3 maggio, è la “giornata internazionale della libertà di stampa”. La ricorrenza, come altre simili, è stata promossa dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1993, in piena fase di trionfo neoliberale, in un periodo in cui si assumeva che oramai esistesse una sola forma di civiltà in procinto di diffondersi nel mondo, quella esemplificata dagli USA. Che gli USA da sempre avessero un rapporto piuttosto controverso con la “libertà di stampa” e con il senso da attribuire all’informazione pubblica (vedi “Quinto Potere” di Sydney Lumet) non pareva più essere un problema. Anche la libertà di stampa fa parte di quei diritti umani sanciti dalla carta del 1948 (art. 19) e che iniziarono ad assumere uno statuto significativo solo all’indomani del crollo dell’URSS, quando si riteneva che quei diritti potessero essere gestiti senza troppi problemi dall’unica superpotenza egemone rimasta. È questa la fase in cui i diritti umani vengono branditi come un mezzo per lanciare campagne militari o di discredito sempre rigorosamente rivolte ai nemici degli USA (l’era delle “guerre umanitarie”: Iraq, Afghanistan, Serbia, ecc.) Ma inaspettatamente, più o meno a partire dagli esiti della crisi subprime, dunque dagli anni ’10 del XXI secolo, alcuni contropoteri hanno iniziato ad emergere nel mondo a guida americana, minacciando il monopolio della verità e dell’informazione internazionale. Inizia co ciò una fase nuova, in cui l’Occidente (cioè i bungalow dell’Impero Americano) inizia ad avere reazioni sempre più isteriche di fronte alle pretese della libertà di informazione. È del 2010 l’inizio della persecuzione di Assange (del novembre 2010 è l’accusa, oramai certificata come farlocca, di stupro in Svezia). Con il Covid si arriva ad un’ulteriore stretta, che dura tutt’ora: inizia la sistematica chiusura di siti, pagine web, la cancellazione di video, la chiusura di piattaforme in rete, l’utilizzo sistematico di algoritmi di oscuramento per parole chiave, ecc. L’utilizzo delle costruzioni di stampa con intenti militanti diviene ora costante. Oggi sappiamo che erano costrutti di stampa già alcuni eventi decisivi (stragi, bombardamenti con armi chimiche) per gli interventi in Serbia o in Siria. Ma per venire a eventi ancora in corso, è notizia di stamane la conferma che i famosi “40 bambini decapitati” da Hamas a inizio conflitto è stata anch’essa una menzogna costruita e propagata ad arte per giustificare ciò che è seguito. Con adeguato ritardo, quando non serve più, alcune smentite riescono ancora a trovare la luce. Sulla vicenda pandemica solo con enorme fatica inizia, qua e là, ad emergere qualche scampolo di verità, e anche lì soltanto per i più vigili, perché l’apparato mainstream continua a tacere e coprire pervicacemente. È dubbio che, con questo ritmo, il grande pubblico perverrà mai a comprendere l’entità della manipolazione avvenuta (non volendo subire ban, mi esimo dal ricordare qui la camionata di menzogne che sono passate come verità scientifiche). Ecco, in questo quadro, è difficile poter conferire un qualunque senso che non sia sarcastico alla “giornata mondiale della libertà di stampa”. La speranza che nel nuovo contesto di tensione internazionale, di nuova “guerra fredda”, si produca una qualche approssimazione di informazione non manipolata è bassissima. Sono peraltro certo che oggi le “grandi firme” della stampa italiana si scambieranno reciprocamente grandi medaglie al merito per la loro integerrima lotta contro le “fake news”, cioè nella lotta ad ogni notizia che pro-tempore disturba il manovratore / procacciatore di salario. E questa è invero l’unica funzione che gli è ancora rimasta. Che l’informazione ufficiale sia poco credibile è oramai ampiamente percepito, e ciò si mostra plasticamente nel crollo delle vendite e degli ascolti. A credervi ciecamente sono rimaste solo quelle minoranze da ZTL che nel continuare a credervi hanno un sostanzioso interesse (niente conferisce maggior potere persuasivo ad una presunta verità del fatto di essere comoda).
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Vivendo nella civiltà della trasparenza e delle regole, il pubblico italiano ha appreso della consegna italiana dei missili Scalp Shadow dall'incontinenza verbale del segretario della Difesa britannico. Qualche giorno dopo, anche il governo italiano ha confermato a mezza bocca la consegna di questi missili, capaci, come si dice con compiacimento, di colpire in profondità il territorio russo. Ora, anche i più lenti hanno capito che il conflitto in Ucraina è compromesso, salvo un intervento diretto e massivo delle truppe Nato (cioè la Terza Guerra Mondiale). La Russia sta conquistando uno o due villaggi al giorno, l'ultima roccaforte ucraina nel Donbass, Chasov Yar, sta per cadere, e gli ucraini non mancano tanto di armi quanto di truppe, visto che hanno sacrificato al fronte quasi tutta la propria meglio gioventù per difendere gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Di solito in Italia si è spesso considerato un particolare talento quello di saltare sul carro del vincitore, ma scopriamo che ci sono eccezioni: se una causa è sbagliata, controproducente per il proprio paese, e massimamente sanguinosa, allora in via del tutto eccezionale si può abbracciarla anche se perdente. Lo scopriamo in Ucraina come in Israele. Ora, tornando ai missili Storm Shadow, apprendiamo che sono armi di ultima generazione, del costo di un milione e mezzo di euro l'uno, che riusciranno probabilmente a uccidere un po' di russi nelle retrovie (senza cambiare di una virgola le sorti del conflitto). Ora, io capisco che avendo nel governo gente che vive di commercio d'armi la prospettiva di essere chiamati a rimpinguare, a spese dell'erario pubblico, le nostre donazioni all'Ucraina deve avere il suo fascino. Non c'è niente di meglio della retorica della "difesa-della-patria-come-bene-superiore" come scusa per spiegare che, no, i soldi per gli ospedali, per l'istruzione, per il recupero dell'inflazione, per i lavori di assestamento idrogeologico, ecc. non ci sono più, ma che potevamo fare? Avremmo tanto voluto, ma poi, sapete, la guerra, il covid, il clima, le cavallette, il destino cinico e baro... Tanto con 9/10 dell'informazione che per mestiere fa l'amplificatore delle veline di Washington, non c'è pericolo che qualcuno si svegli. Qualcuno potrebbe chiedersi chi ha dato a Giorgia Meloni il diritto di rendere gli italiani nemici dei russi, quando non lo sono e non lo sono mai stati. Ma posta così la domanda sarebbe fuorviante, perché se al governo ci fosse stato Draghi o Schlein sarebbe stato esattamente lo stesso. Al netto di tutte le anime belle che sbambano di complessità, nella politica italiana è tutto di una linearità sorprendente. E' così che andremo tra un mese a votare potendo scegliere tra varianti estetiche dei servi di bottega di Biden.
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IL PARADOSSO DEL TOTALITARISMO Da tempo la strategia narrativa neoliberale, di matrice angloamericana, passa attraverso due mosse: 1) il tentativo di definire il mondo liberale come l’unico mondo possibile, per cui, nel lungo periodo non c’è alternativa (da Fukuyama alla Thatcher), e 2) il tentativo di sussumere tutte le forme di vita, tutte le organizzazioni politiche e tutti gli impianti culturali che pretendono di non ridursi al paradigma liberale come “illiberali-e-dunque-totalitari”. Finiscono così nel calderone degli “illiberali-e-dunque-totalitari” ogni religione che pretenda di essere più che fatto privato (es.: l’Islam), tutti i paesi che pretendono di mantenere sovranità senza genuflettersi all’impero americano (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord ma poi anche, a seconda di come girano i governi, Cuba, Venezuela, Bielorussia, Ungheria, Serbia, Sudafrica, ecc.), e poi tutte le ideologie che hanno storicamente rigettato l’impianto liberale (socialismo/comunismo in primis, conservatorismi pre-liberali dove esistono, e nella modesta misura in cui hanno elaborato una teoria, i fascismi tra le due guerre). Naturalmente gli elementi che compaiono in questo calderone presentano, a chi voglia prendersi la briga di guardarli da vicino, una miriade di soluzioni politiche, istituzionali e culturali diverse, ma questo per la narrazione neoliberale è irrilevante: su di essi ricade la scomunica dell’“illiberalità-e-dunque-totalitarismo”. Ci si ritrova così con il seguente quadro, altamente ironico, per cui il liberalismo, l’unica ideologia che si pretende l’ultima e definitiva verità della storia, da estendersi in forma planetaria, denuncia tutte le altre culture e soluzioni politiche della storia come “totalitarie”. In sostanza l’unica cultura che oggi ha pretese realisticamente totalitarie denuncia tutti gli altri come totalitari. E siccome in una visione totalitaria, ciò che appartiene alla propria ortodossia è per definizione il Bene, le società liberali (oggi neoliberali) riescono con perfetta serenità e buona coscienza a prodursi in spettacolari doppiopesismi, in un profluvio di doppi standard, perché i nostri delitti sono errori contingenti, i vostri ignobili abiezioni, i nostri massacri sono danni collaterali, i vostri espressione di malvagità innata, le nostre proteste interne sono tafferugli di minoranze ingrate, le vostre sono manifestazione popolare di un anelito alla libertà, ecc. ecc. La denuncia neoliberale di “tutti i totalitarismi” è la perfetta esemplificazione del proverbiale bue che dà del cornuto all’asino.
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Da allora sono passati altri tre decenni. Una volta l’anno, in occasione della festività nazionale del 25 aprile, si rinnovella la sceneggiata dell’antifascismo in assenza di fascismo. La Russia si è riconciliata con il zarismo e con il comunismo, la Cina si è riconciliata con il celeste impero e con la Rivoluzione Culturale, persino gli USA hanno riconciliato i fronti della guerra che ha ucciso più americani nella storia, la guerra civile tra Nord e Sud. Ma se dovessimo prendere sul serio il discorso dell'odierno mainstream nel passato nazionale tra il 1922 e il 1945 non c'è niente da comprendere, solo da abiurare. La parola d’ordine dell’antifascismo serve oramai soltanto a ricompattare le truppe dei liberali di sinistra (così come l’anticomunismo serve a compattare le truppe dei liberali di destra). Nonostante esistano oramai approfondimenti e analisi storiche dettagliate e intelligenti del fenomeno storico del fascismo (tra tutti ricordo la vasta opera di Emilio Gentile), la paroletta “fascismo” (come quella “antifascismo”) viene usata come un guscio vuoto, un riflesso pavloviano, una suggestione emozionale che galleggia sulla più totale ignoranza storica. Ed è solo così che può accadere che proprio chi più si riempie la bocca di antifascismo: 1) giustifica (o finge di non vedere) una ferrea censura sui mezzi di comunicazione, come fece il fascismo; 2) accetta che carriere vengano fatte e disfatte in base all'accordo o disaccordo ideologico con le verità di regime, come fece il fascismo; 3) accetta che non esistano più organismi capaci di difendere i lavoratori, come avvenne col fascismo; 4) considera normale ed anzi auspicabile che la ricerca scientifica sia asservita agli interessi e scopi dei ceti dirigenti, come accadde durante il fascismo; e sempre in analogia col ventennio: 5) manipola serenamente e spudoratamente la storia e l’informazione per dar man forte all'ideologia dominante; 6) permette a gruppetti di autonominati guardiani dell’ortodossia di bullizzare i dissenzienti; 7) svuota il diritto di voto limitando le opzioni votabili a varianti di un’unica e sola agenda (There Is No Alternative); 8) impone e incentiva un’ortodossia linguistica ed espressiva, e ghettizza chi non vi si conforma (Politically Correct); 9) consegna all'oblio, emenda forzosamente o distrugge, prodotti culturali (presenti o passati) ritenuti 'immorali', 'diseducativi', ecc. 10) permette la discriminazione di intellettuali, sportivi e artisti sulla sola base della mancata adesione ad un paradigma ideologico o della nazionalità di appartenenza (qui siamo persino un po’ oltre quanto fece il fascismo). Ecco, quando una parola viene brandita come un’arma, come un insulto, risparmiandosi un’analisi dei suoi contenuti effettivi, può accadere che quei contenuti ritornino in forma persino peggiorativa, crescendo nascosti dall’ombra gettata da quella parola. E qui, qualcuno dirà che, dopo tutto, almeno oggi le classi dirigenti del Partito Unico Liberale non ci hanno condotto ad una guerra catastrofica, come fece il Partito Nazionale Fascista. Eh già, ma dategli tempo.
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COSA CRESCE ALL’OMBRA DELL’ ODIERNO ANTIFASCISMO? La festa del 25 aprile, come celebrazione della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, fu istituita subito dopo la guerra, il 22 aprile del 1946 con regio decreto (l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; il referendum si sarebbe tenuto due mesi dopo). Se si pensa alla scelta della data, il significato inizialmente inteso è piuttosto chiaro: si trattava di affermare le autorità italiane (a partire dal re) come interlocutori delle potenze occupanti, nonostante l’ovvia compromissione con il fascismo. Per farlo si richiamava la data del 25 aprile 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia aveva proclamato l’insurrezione generale contro le rimanenti truppe nazifasciste, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate (il suicidio di Hitler nel bunker di Berlino è di 5 giorni dopo, il 30 aprile). Con l’istituzione della festività si intendeva manifestare all’interno, ma soprattutto all’estero che l’Italia era altra cosa rispetto al fascismo. Negli anni del dopoguerra la festività del 25 aprile venne investita di un ulteriore ruolo di compattamento del nuovo arco costituzionale che doveva prendere le distanze dalle ampie rimanenze del regime fascista all’interno delle istituzioni (a partire dalla magistratura). In quel periodo e fino a quando quella generazione non si esauriva, dunque fino agli anni ’70 circa, la celebrazione e più in generale la rivendicazione di antifascismo aveva un ruolo politico ben definito: non si trattava semplicemente di una condanna storica, ma di una condanna storica con una funzione politica concreta. E che il fascismo meritasse quella condanna era fuor di dubbio, giacché, nonostante alcuni lasciti positivi (la Riforma Gentile, l’IRI), il suo principale lascito alla fine era stata una devastante sconfitta bellica e la sostanziale subordinazione dell’Italia agli USA (subordinazione che, peraltro, nel dopo guerra penalizzò soprattutto il Partito Comunista). Già con gli anni ’80 l’anniversario della liberazione dal nazifascismo aveva preso una mera piega autocelebrativa per una classe politica che cominciava a risultare invisa a una parte significativa dei governati: a fronte di una fisiologica dissoluzione sia della realtà che della memoria del fascismo reale, l’antifascismo serviva sempre di più come esibizione retorica che avrebbe dovuto conferire credito morale ad un ceto politico cui tale credito veniva riconosciuto sempre meno. A partire dagli anni ’90, con il crollo dell’URSS, la nascita dell’UE e il trionfo del modello neoliberale, l’antifascismo e le sue celebrazioni assunsero definitivamente un carattere museale. Il termine “fascismo” e “fascista” veniva ormai utilizzato come un generico insulto. Luciano Violante nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera dei Deputati, nel 1996, chiese per la prima volta esplicitamente una riconciliazione nazionale tra chi, oramai mezzo secolo prima, si era trovato su fronti avversi (Resistenza partigiana e Repubblica Sociale Italiana).
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Questo fatto da solo spegne ogni sorriso. Già perché questo standard di asservimento perinde ac cadaver da parte di persone che non hanno bisogno "per campare" di fare nulla del genere è l'espressione di un collasso epocale: il collasso di quel ceto intellettuale la cui unica sensata funzione nello spazio pubblico dovrebbe essere la difesa e promozione di un diffuso senso critico, e che invece è oramai solo un megafono coronato d'alloro. Non illudiamoci che questo fatto rimanga racchiuso nella sfera delle piccole impudicizie dell'intellighentsia. No, questi fatti sono un segno dei tempi, il segno che lo spazio di ciò che fu l'informazione e l'elaborazione critica è oramai uno spazio mercenario di addestramento pubblico, uno spazio dove le masse devono essere addestrate all'obbedienza giacché anche solo immaginare che vi possa essere un'alternativa è blasfemo. Sono testi del genere che spiegano, con mirabile dono di sintesi, l'oceano debordante di menzogne che ci ha investito negli ultimi due anni, dalle strategie pandemiche made in Pfizer agli Uruk-hai russi. Perché una tale infinita batteria di palle incatenate regga il fuoco, come in ogni fronte di guerra ci vuole una solida retrovia di carristi e artiglieri, distribuiti nei posti strategici. E il fatto che intellettuali sedicenti indipendenti si trovino con assoluta naturalezza in quelle retrovie mostra la compromissione terminale di un intero ceto, compromissione i cui danni continueremo a subire per anni.>>
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Riprendo un breve testo che ho scritto di due anni fa (maggio 2022) e che può tornare utile rileggere oggi. <
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Tre giorni fa, il 16 aprile, l'autorevolissima rivista di provata fede atlantista "Foreign Affairs" ha pubblicato un articolo che mette la parola fine a tutte le chiacchiere intorno alle intenzioni di Putin di invadere l'Europa, di arrivare a Lisbona, di abbeverare i cavalli nelle acquasantiere di San Pietro, e con ciò anche alla relativa reazione bellicista da parte europea. L'articolo è a firma di un docente dell'Henry A. Kissinger Center for Global Affairs della Johns Hopkins School of Advanced International Studies, e di un associato del think tank RAND, ex Senior Fellow per la Russia e l'Eurasia all'International Institute for Strategic Studies. Praticamente la crema dei falchi atlantisti. Nell'articolo si ricostruisce, con documentazione, lo sviluppo di una trattativa tra Putin e Zelensky (tra le rispettive delegazioni) dal 28 febbraio 2022 (neanche una settimana dopo l'invasione russa!) fino alla fine di aprile. La trattativa ha avuto luogo in parte in Bielorussia e in parte in Turchia. DI questa trattativa era già stata fatta menzione più volte, tra l'altro anche dallo stesso Putin che ne aveva mostrata una bozza ai leader delle nazioni africane e dall'ex primo ministro israeliano Bennett. Ovviamente le prodi difese antidisinformazione del giornalismo nostrano non avevano mancato, con la loro aria saputella da mantenuti, di ridicolizzare queste notizie come "fake news". Tra il 29 marzo e il 15 aprile si era pervenuti ad un accordo di massima, che prevedeva per l’Ucraina di rimanere uno Stato permanentemente neutrale e non nucleare, di rinunciare all'adesione alla Nato e in generale ad alleanze militari, di non consentire l'insediamento di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio. La questione della Crimea era menzionata proponendo una risoluzione pacifica del contenzioso nei successivi 15 anni. La Russia accettava l'adesione dell'Ucraina all'UE. Per il Donbass si ristabiliva la validità degli accordi di Minsk (II), con il riconoscimento di un'ampia autonomia alle regioni russofone, all'interno dello stato ucraino. Gli accordi naufragano bruscamente nella seconda metà di aprile, quando la firma della bozza sembrava dietro l'angolo. L'accoglienza americana ai negoziati era stata scettica dall'inizio, ma la svolta avviene dopo la visita di Boris Johnson, allora premier britannico in carica, che si fa latore del messaggio di “Combattere la Russia fino all'ottenimento della vittoria”. Le trattative si interrompono subito dopo. Che ha questa svolta abbiano contribuito il cosiddetto "massacro di Bucha" o il ritiro delle truppe russe dalla direttrice di Kiev, preso come un segno di debolezza, è oggetto di congetture. E' a questo punto che in Occidente si preme unilateralmente sull'acceleratore della fornitura di armamenti, respingendo ogni ipotesi di accordo. Ed è evidente a tutti che senza la piena copertura occidentale Zelensky non avrebbe mai rinunciato alle trattative. Eventi che segnano una svolta senza ritorno, come la distruzione del North Stream 2, erano ancora di là da venire (26 settembre 2022). Quando le trattative prendono l'avvio i morti sul campo di battaglia erano ancora un numero estremamente esiguo, non c'erano state ancora mattanze come quella di Mariupol (maggio 2022). CIò che questo resoconto sancisce in maniera definitiva è la catena delle responsabilità di una catastrofe annunciata. L'Ucraina è oggi un cumulo di macerie, con una popolazione ridotta del 40% dall'indipendenza nel 1991. L'Europa è in piena fase di deindustrializzazione, con la "locomotiva" tedesca ferma, le industrie che si trasferiscono negli USA per rimanere competitive con i costi dell'energia, e l'intero apparato produttivo europeo vincolato alle forniture americane. I pochi denari rimasti in circolazione in Europa stanno per essere cooptati in una nuova corsa agli armamenti che brucerà le ultime risorse nello sterile falò di una guerra (attuale o potenziale).
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E tutto questo è stato deciso da Washington e le sue succursali, con il collaborazionismo della peggiore classe dirigente della storia europea, e con il supporto entusiastico dei nostri media a gettone, che dal primo giorno hanno tifato senza pudore per la guerra, e continuano a farlo. Se c'è un inferno, chi lo presiede dovrà promuovere presto un piano di edilizia straordinaria.
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