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Andrea Zhok

Antropologia / Filosofia / Politica

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Da allora sono passati altri tre decenni. Una volta l’anno, in occasione della festività nazionale del 25 aprile, si rinnovella la sceneggiata dell’antifascismo in assenza di fascismo. La Russia si è riconciliata con il zarismo e con il comunismo, la Cina si è riconciliata con il celeste impero e con la Rivoluzione Culturale, persino gli USA hanno riconciliato i fronti della guerra che ha ucciso più americani nella storia, la guerra civile tra Nord e Sud. Ma se dovessimo prendere sul serio il discorso dell'odierno mainstream nel passato nazionale tra il 1922 e il 1945 non c'è niente da comprendere, solo da abiurare. La parola d’ordine dell’antifascismo serve oramai soltanto a ricompattare le truppe dei liberali di sinistra (così come l’anticomunismo serve a compattare le truppe dei liberali di destra). Nonostante esistano oramai approfondimenti e analisi storiche dettagliate e intelligenti del fenomeno storico del fascismo (tra tutti ricordo la vasta opera di Emilio Gentile), la paroletta “fascismo” (come quella “antifascismo”) viene usata come un guscio vuoto, un riflesso pavloviano, una suggestione emozionale che galleggia sulla più totale ignoranza storica. Ed è solo così che può accadere che proprio chi più si riempie la bocca di antifascismo: 1) giustifica (o finge di non vedere) una ferrea censura sui mezzi di comunicazione, come fece il fascismo; 2) accetta che carriere vengano fatte e disfatte in base all'accordo o disaccordo ideologico con le verità di regime, come fece il fascismo; 3) accetta che non esistano più organismi capaci di difendere i lavoratori, come avvenne col fascismo; 4) considera normale ed anzi auspicabile che la ricerca scientifica sia asservita agli interessi e scopi dei ceti dirigenti, come accadde durante il fascismo; e sempre in analogia col ventennio: 5) manipola serenamente e spudoratamente la storia e l’informazione per dar man forte all'ideologia dominante; 6) permette a gruppetti di autonominati guardiani dell’ortodossia di bullizzare i dissenzienti; 7) svuota il diritto di voto limitando le opzioni votabili a varianti di un’unica e sola agenda (There Is No Alternative); 8) impone e incentiva un’ortodossia linguistica ed espressiva, e ghettizza chi non vi si conforma (Politically Correct); 9) consegna all'oblio, emenda forzosamente o distrugge, prodotti culturali (presenti o passati) ritenuti 'immorali', 'diseducativi', ecc. 10) permette la discriminazione di intellettuali, sportivi e artisti sulla sola base della mancata adesione ad un paradigma ideologico o della nazionalità di appartenenza (qui siamo persino un po’ oltre quanto fece il fascismo). Ecco, quando una parola viene brandita come un’arma, come un insulto, risparmiandosi un’analisi dei suoi contenuti effettivi, può accadere che quei contenuti ritornino in forma persino peggiorativa, crescendo nascosti dall’ombra gettata da quella parola. E qui, qualcuno dirà che, dopo tutto, almeno oggi le classi dirigenti del Partito Unico Liberale non ci hanno condotto ad una guerra catastrofica, come fece il Partito Nazionale Fascista. Eh già, ma dategli tempo.
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COSA CRESCE ALL’OMBRA DELL’ ODIERNO ANTIFASCISMO? La festa del 25 aprile, come celebrazione della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, fu istituita subito dopo la guerra, il 22 aprile del 1946 con regio decreto (l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; il referendum si sarebbe tenuto due mesi dopo). Se si pensa alla scelta della data, il significato inizialmente inteso è piuttosto chiaro: si trattava di affermare le autorità italiane (a partire dal re) come interlocutori delle potenze occupanti, nonostante l’ovvia compromissione con il fascismo. Per farlo si richiamava la data del 25 aprile 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia aveva proclamato l’insurrezione generale contro le rimanenti truppe nazifasciste, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate (il suicidio di Hitler nel bunker di Berlino è di 5 giorni dopo, il 30 aprile). Con l’istituzione della festività si intendeva manifestare all’interno, ma soprattutto all’estero che l’Italia era altra cosa rispetto al fascismo. Negli anni del dopoguerra la festività del 25 aprile venne investita di un ulteriore ruolo di compattamento del nuovo arco costituzionale che doveva prendere le distanze dalle ampie rimanenze del regime fascista all’interno delle istituzioni (a partire dalla magistratura). In quel periodo e fino a quando quella generazione non si esauriva, dunque fino agli anni ’70 circa, la celebrazione e più in generale la rivendicazione di antifascismo aveva un ruolo politico ben definito: non si trattava semplicemente di una condanna storica, ma di una condanna storica con una funzione politica concreta. E che il fascismo meritasse quella condanna era fuor di dubbio, giacché, nonostante alcuni lasciti positivi (la Riforma Gentile, l’IRI), il suo principale lascito alla fine era stata una devastante sconfitta bellica e la sostanziale subordinazione dell’Italia agli USA (subordinazione che, peraltro, nel dopo guerra penalizzò soprattutto il Partito Comunista). Già con gli anni ’80 l’anniversario della liberazione dal nazifascismo aveva preso una mera piega autocelebrativa per una classe politica che cominciava a risultare invisa a una parte significativa dei governati: a fronte di una fisiologica dissoluzione sia della realtà che della memoria del fascismo reale, l’antifascismo serviva sempre di più come esibizione retorica che avrebbe dovuto conferire credito morale ad un ceto politico cui tale credito veniva riconosciuto sempre meno. A partire dagli anni ’90, con il crollo dell’URSS, la nascita dell’UE e il trionfo del modello neoliberale, l’antifascismo e le sue celebrazioni assunsero definitivamente un carattere museale. Il termine “fascismo” e “fascista” veniva ormai utilizzato come un generico insulto. Luciano Violante nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera dei Deputati, nel 1996, chiese per la prima volta esplicitamente una riconciliazione nazionale tra chi, oramai mezzo secolo prima, si era trovato su fronti avversi (Resistenza partigiana e Repubblica Sociale Italiana).
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Questo fatto da solo spegne ogni sorriso. Già perché questo standard di asservimento perinde ac cadaver da parte di persone che non hanno bisogno "per campare" di fare nulla del genere è l'espressione di un collasso epocale: il collasso di quel ceto intellettuale la cui unica sensata funzione nello spazio pubblico dovrebbe essere la difesa e promozione di un diffuso senso critico, e che invece è oramai solo un megafono coronato d'alloro. Non illudiamoci che questo fatto rimanga racchiuso nella sfera delle piccole impudicizie dell'intellighentsia. No, questi fatti sono un segno dei tempi, il segno che lo spazio di ciò che fu l'informazione e l'elaborazione critica è oramai uno spazio mercenario di addestramento pubblico, uno spazio dove le masse devono essere addestrate all'obbedienza giacché anche solo immaginare che vi possa essere un'alternativa è blasfemo. Sono testi del genere che spiegano, con mirabile dono di sintesi, l'oceano debordante di menzogne che ci ha investito negli ultimi due anni, dalle strategie pandemiche made in Pfizer agli Uruk-hai russi. Perché una tale infinita batteria di palle incatenate regga il fuoco, come in ogni fronte di guerra ci vuole una solida retrovia di carristi e artiglieri, distribuiti nei posti strategici. E il fatto che intellettuali sedicenti indipendenti si trovino con assoluta naturalezza in quelle retrovie mostra la compromissione terminale di un intero ceto, compromissione i cui danni continueremo a subire per anni.>>
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Riprendo un breve testo che ho scritto di due anni fa (maggio 2022) e che può tornare utile rileggere oggi. <
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E tutto questo è stato deciso da Washington e le sue succursali, con il collaborazionismo della peggiore classe dirigente della storia europea, e con il supporto entusiastico dei nostri media a gettone, che dal primo giorno hanno tifato senza pudore per la guerra, e continuano a farlo. Se c'è un inferno, chi lo presiede dovrà promuovere presto un piano di edilizia straordinaria.
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Tre giorni fa, il 16 aprile, l'autorevolissima rivista di provata fede atlantista "Foreign Affairs" ha pubblicato un articolo che mette la parola fine a tutte le chiacchiere intorno alle intenzioni di Putin di invadere l'Europa, di arrivare a Lisbona, di abbeverare i cavalli nelle acquasantiere di San Pietro, e con ciò anche alla relativa reazione bellicista da parte europea. L'articolo è a firma di un docente dell'Henry A. Kissinger Center for Global Affairs della Johns Hopkins School of Advanced International Studies, e di un associato del think tank RAND, ex Senior Fellow per la Russia e l'Eurasia all'International Institute for Strategic Studies. Praticamente la crema dei falchi atlantisti. Nell'articolo si ricostruisce, con documentazione, lo sviluppo di una trattativa tra Putin e Zelensky (tra le rispettive delegazioni) dal 28 febbraio 2022 (neanche una settimana dopo l'invasione russa!) fino alla fine di aprile. La trattativa ha avuto luogo in parte in Bielorussia e in parte in Turchia. DI questa trattativa era già stata fatta menzione più volte, tra l'altro anche dallo stesso Putin che ne aveva mostrata una bozza ai leader delle nazioni africane e dall'ex primo ministro israeliano Bennett. Ovviamente le prodi difese antidisinformazione del giornalismo nostrano non avevano mancato, con la loro aria saputella da mantenuti, di ridicolizzare queste notizie come "fake news". Tra il 29 marzo e il 15 aprile si era pervenuti ad un accordo di massima, che prevedeva per l’Ucraina di rimanere uno Stato permanentemente neutrale e non nucleare, di rinunciare all'adesione alla Nato e in generale ad alleanze militari, di non consentire l'insediamento di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio. La questione della Crimea era menzionata proponendo una risoluzione pacifica del contenzioso nei successivi 15 anni. La Russia accettava l'adesione dell'Ucraina all'UE. Per il Donbass si ristabiliva la validità degli accordi di Minsk (II), con il riconoscimento di un'ampia autonomia alle regioni russofone, all'interno dello stato ucraino. Gli accordi naufragano bruscamente nella seconda metà di aprile, quando la firma della bozza sembrava dietro l'angolo. L'accoglienza americana ai negoziati era stata scettica dall'inizio, ma la svolta avviene dopo la visita di Boris Johnson, allora premier britannico in carica, che si fa latore del messaggio di “Combattere la Russia fino all'ottenimento della vittoria”. Le trattative si interrompono subito dopo. Che ha questa svolta abbiano contribuito il cosiddetto "massacro di Bucha" o il ritiro delle truppe russe dalla direttrice di Kiev, preso come un segno di debolezza, è oggetto di congetture. E' a questo punto che in Occidente si preme unilateralmente sull'acceleratore della fornitura di armamenti, respingendo ogni ipotesi di accordo. Ed è evidente a tutti che senza la piena copertura occidentale Zelensky non avrebbe mai rinunciato alle trattative. Eventi che segnano una svolta senza ritorno, come la distruzione del North Stream 2, erano ancora di là da venire (26 settembre 2022). Quando le trattative prendono l'avvio i morti sul campo di battaglia erano ancora un numero estremamente esiguo, non c'erano state ancora mattanze come quella di Mariupol (maggio 2022). CIò che questo resoconto sancisce in maniera definitiva è la catena delle responsabilità di una catastrofe annunciata. L'Ucraina è oggi un cumulo di macerie, con una popolazione ridotta del 40% dall'indipendenza nel 1991. L'Europa è in piena fase di deindustrializzazione, con la "locomotiva" tedesca ferma, le industrie che si trasferiscono negli USA per rimanere competitive con i costi dell'energia, e l'intero apparato produttivo europeo vincolato alle forniture americane. I pochi denari rimasti in circolazione in Europa stanno per essere cooptati in una nuova corsa agli armamenti che brucerà le ultime risorse nello sterile falò di una guerra (attuale o potenziale).
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LA BATTAGLIA PERDUTA A partire dalla crisi subprime abbiamo assistito ad una vera e propria debacle delle classi dirigenti europee di fronte all’egemone statunitense. L’Europa non è riuscita ad imporre nessuna politica che presentasse caratteri di rilevante autonomia e di sviluppo di un modello indipendente; si sono mantenuti per alcuni anni i canali di contatto internazionale sviluppati in precedenza con Cina, Russia e mondo islamico, salvo procedere ad una loro rapida dismissione a partire dalla svolta pandemica. Durante la pandemia si è assistito ad un coordinamento delle strategie “sanitarie” guidato dalle autorità americane (NSA, FDA) che ha coinvolto in un modello comune i paesi Nato, il Commonwealth e Israele, cioè tutte le principali diramazioni della potenza americana. Con la guerra russo-ucraina l’Europa ha accettato condizioni di ingaggio che significavano una subordinazione totale dell’apparato produttivo europeo alle esigenze americane. La distruzione del North Stream 2 ne è stata il sigillo simbolico. La deindustrializzazione, che finora era stata avviata solo nell’Europa meridionale a favore dell’Europa settentrionale – con la giustificazione delle “esigenze di austerità” – ora ha iniziato a coinvolgere anche l’ex locomotiva tedesca. Che l’Europa non fosse da tempo capace di immaginarsi come un modello alternativo a quello americano era chiaro dagli anni ’90, ma per quasi due decenni la scommessa del neoliberalismo di matrice europea consisteva nel credere di potere essere un vero competitore per gli USA, di poter superare gli USA nel loro gioco preferito, il mercatismo capitalista. Salvo scoprire ad un certo punto che le aborrite sovranità, abbattute nel nome della globalizzazione mercatista, erano l’unica fonte di autonomia e indirizzo anche in un contesto capitalista: gli USA, che mai hanno dato credito alla fiaba del superamento delle sovranità, hanno imposto la propria ad un’Europa trasformatasi in un agglomerato di lobby private innestate su istituzioni senza carattere né spina dorsale. Si può avere la tentazione di leggere la debacle delle classi dirigenti europee in termini di corruzione o di ricatto. Uno guarda lo scempio di rappresentanti apicali delle nazioni europee che ne sacrificano gli interessi e svendono i propri popoli, e si immagina che il personaggio X abbia ricevuto un cospicuo bonifico o il personaggio Y sia sotto ricatto. Ma questi casi, che certo esistono, non spiegano affatto la radicalità della catastrofe. Il cardine intorno a cui ruota l’attuale catastrofe europea è strettamente culturale. È sul piano culturale che l’Europa, in blocco, è diventata una succursale sfigata dei college americani. A partire dagli anni ’90 ogni pretesa di autonomia culturale europea è sostanzialmente svanita. Sul piano della teoria economica sono scomparse tutte le teorizzazioni autonome rispetto alla sintesi neoclassica, teorizzazioni che permangono come note a piede di pagina o desueti capitoli di storia. Sul piano linguistico la cura della lingua madre e della ricchezza delle altre lingue europee è stata sostituita da un inglese da concierge, che rappresenta ormai l’ambita vetta della “internazionalizzazione” (questo lo si vede benissimo nell’offerta formativa liceale non meno che universitaria). Sul piano cinematografico il modello dell’intrattenimento usa e getta di marca hollywoodiana è il solo gioco rimasto in campo e siamo tutti più consapevoli di quello che succede sulle strade di S. Francisco che di quello che succede sotto casa propria. L’intero settore delle “Geisteswissenschaften”, delle scienze dello spirito o umanistiche, ha subito un’involuzione nel senso di uno specialismo museale che le trasforma da palestre di cittadinanza in parchi di divertimenti di nicchia, rigorosamente innocui per il potere. Problemi di costume che avevano già avuto il tempo di imperversare e stufare in America quarant’anni fa (basta guardare un Clint Eastwood d’annata), dal razzismo al politicamente corretto, sono state importati di peso in Europa occupando il centro della scena.
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L’immaginario “ribelle” delle nuove generazioni è colonizzato da un ribellismo individuale, il ribellismo degli schiavi che lamentano di non essere mercanti di schiavi (vedi rap e trap). Ecc. Ecc. Se il problema fossero solo la corruzione e il ricatto, basterebbe un indebolimento della voce del padrone (cosa che potrebbe essere dietro l’angolo) e l’Europa potrebbe iniziare un processo di emancipazione. Purtroppo il vero problema è l’avvenuta totale introiezione dei paradigmi culturali del padrone, quei paradigmi che rendono impossibile ai più anche solo immaginare un’alternativa al mondo corrente. Una volta perduta la battaglia dell’identità culturale, tutte le altre battaglie sono perdute prima di schierare le truppe.
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Per gli interessati, con la collaborazione degli amici di Identità Europea, avrò il piacere di presentare "La Profana Inquisizione e il regno dell'anomia": Giovedì (18 c.m.) alle 18.30 a Rimini, in Corso d'Augusto 76. e Venerdì (19 c.m.) a Città di Castello (PG) alle 21.00, presso l'Hotel Le Mura.
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Ieri è giunta l'attesa risposta iraniana al bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco, che aveva ucciso tra gli altri il generale Haj Zahedi. L'Iran ha effettuato un attacco simultaneo con droni e missili in modo da saturare la poderosa difesa antiaerea israeliana. Missili hanno colpito due basi militari israeliane (monte Hermon e Novatim). Oggi l'autorità iraniana rivendica quei due obiettivi come primari, ma è abbastanza ovvio come questa rivendicazione abbia semplicemente la funzione di far coincidere gli obiettivi raggiunti di fatto con le intenzioni effettive (che non conosciamo), per poter dire che il successo è stato completo. Al di là di queste schermaglie, gli obiettivi sono stati scelti intenzionalmente tra le basi militari israeliane, tralasciando i civili, in modo da poter considerare con questa risposta chiuso l'incidente aperto con l'attacco a Damasco, nel nome della proporzionalità. Gli USA, sotto elezioni, non hanno nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto diretto con l'Iran, che li esporrebbe sull'ennesimo fronte simultaneo in termini di un sempre più complicato sostegno militare (Ucraina, Taiwan, Siria, ecc.). Biden ha già fatto sapere che, pur sostenendo come sempre Israele, non desidera un'ulteriore escalation. La dirigenza iraniana, attraverso la voce del generale Mohammad Bagheri ha affermato, dal canto suo, che con questa risposta considera l'incidente chiuso, ma che si riserva di replicare in forma amplificata in caso di un nuovo attacco israeliano. La palla è dunque ora nelle mani del governo israeliano, che può decidere o di minimizzare l'accaduto, sostenendo che i danni ricevuti sono irrilevanti e che nessuna replica è necessaria, o, al contrario, agitando lo spettro del primo attacco diretto sul proprio territorio, può preparare un contrattacco. Un nuovo attacco israeliano obbligherebbe l'Iran a una risposta all'altezza delle promesse, avviando quella temuta escalation che non può che sfociare in una devastante guerra regionale (in una regione già sull'orlo di una crisi di nervi a causa del massacro di civili palestinesi avvenuto negli scorsi mesi e ancora in corso). Purtroppo tutto lascia credere che Israele seguirà proprio questa strada, sia perché l'intento di innescare un'escalation sembra essere stato trasparente sin dall'inizio (l'attacco al consolato iraniano non aveva nessuna funzione strategica sul piano militare, ma solo il senso di una violazione così manifesta da obbligare una risposta), sia perché le sorti interne di Nethanyahu dipendono da quanto può prolungare il conflitto e quanto può fidelizzare il fronte interno intorno alle esigenze di difesa. La prospettiva di una guerra regionale, oltre ad aprire scenari potenzialmente apocalittici sul piano strettamente militare, provocherebbe un'ulteriore crisi dei traffici lungo le direttrici del canale di Suez e dei canali di scambio di materie prime tra Europa e Asia (cosa che gli USA potrebbero gradire). L'Europa, sempre più genuflessa agli USA, passiva e ridotta al ruolo di interprete di veline atlantiche, prepara ai propri popoli un futuro di stenti.
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